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 2018  settembre 14 Venerdì calendario

György Kurtág: «Penso a Beckett da 60 anni È il mio addio alla vita»

È un debutto “storico” – senza esagerazioni – quello dell’opera Samuel Beckett: Fin de partie. Scènes et monologues, creata dal compositore ungherese György Kurtág, che andrà in scena alla Scala il 15 novembre. Lo è per il prestigio dell’autore, l’ampiezza delle risorse impegnate e la quantità di tempo usata per realizzare l’impresa. Questa rilettura operistica del play di Beckett emerge infatti da anni di lavoro, preceduti da decenni di riflessione “in vista di”. Trattasi di un obiettivo siderale e ora il risultato è raggiunto.Di sicuro György Kurtág, per una fetta sostanziosa del suo percorso di ultranovantenne (è nato nel ’26), ha fantasticato su quest’avventura. Dichiara lui stesso, in un prezioso incontro a Budapest (non concede mai interviste), che nella sua testa «l’idea prese il via addirittura una sessantina di anni fa».Artista puro e radicale, Kurtag è un monumento estraneo alle mode. Scomparsi Stockhausen e Boulez, nessuno oggi nella musica possiede la sua statura, e solo grazie al suo carisma la Scala ha costruito un’operazione mastodontica, con prove di mesi negli spazi del Budapest Music Center, luogo attivo nel diffondere la musica contemporanea. Qui il nostro eroe ha lavorato con un’orchestra ungherese ingaggiata apposta per consentire a Kurtág, che quasi certamente non verrà a Milano (ha un corpo fragile e cammina con difficoltà), di sentire l’opera e modificarne i passaggi. Con lui si adoperano da molte settimane sia il direttore Markus Stenz sia gli stessi magnifici cantanti (Frode Olsen, Leigh Melrose, Hilary Summers, Leonardo Cortellazzi) che interpreteranno Fin de partie alla Scala (lo spettacolo avrà la regia di Pierre Audi).
È stata quindi messa in atto un’"orchestrazione dal vivo” senza precedenti, e a novembre la partitura passerà all’orchestra della Scala. Nessun compositore del pianeta merita tanto lusso.«In Ungheria, dopo la rivolta antisovietica del ’56, la situazione si fece drammatica e nel 1957 andai a Parigi per un anno», racconta Kurtág accanto alla moglie, la pianista Marta Kinsker, in una sala del BMC, dove un gruppo ristretto di spettatori ha assistito a una prova filata dell’intera opera.Che è potente, limpida, tragica. I suoni paiono strappati dal silenzio, l’intonazione di ogni parola s’incide nell’aria. «Vidi la pièce di Beckett e ci penso da allora, anche se poi è successo molto altro», spiega lui, aggiungendo che Alexander Pereira, sovrintendente della Scala e suo amico da una trentina d’anni, gli sta alle costole da una decina per indurlo a generare questo titolo: «Ha avuto pazienza», afferma con sorriso alieno e ironico, allergico ai ritmi di una modernità di cui però la sua musica sa leggere le inquietudini. «Mi commissionò un’opera quand’era a Zurigo e ha continuato a farlo guidando il Festival di Salisburgo. Ogni anno l’annunciava! Dovevo accontentarlo».
La straordinarietà dell’evento – prodotto dalla Scala con De Nationale Opera di Amsterdam – deriva anche dal fatto che questa sarà la prima opera teatrale firmata da un autore la cui poetica si è orientata verso gesti brevi e incisivi e sprazzi aforistici, a volte uniti in cicli.Tardivamente (vedi Stele, 1994, diretto a Berlino da Abbado), Kurtág ha scritto per grandi orchestre. Ma molta parte del suo mondo punta a guizzi sintetici che pure riflettono sconfinati universi, fondendo l’eredità di Bartók e la concisione metafisica di Webern.Amico di György Ligeti, Kurtág fu toccato da maestri quali Messiaen e Milhaud ed ebbe un’ascesa lenta fino agli anni 80, quando Boulez lo lanciò internazionalmente. Il suo stile si alimenta del nucleo sonoro della parola poetica, come testimonia anche What is the word, basato sul poema di Beckett, di cui Kurtág ammira la messa a nudo lapidaria del linguaggio verbale. «Quando assistetti a Finale di partita sapevo poco il francese ed era tutto troppo veloce», rammenta.
«Comprai il testo, lo lessi e ne scrissi a Ligeti. Da allora Beckett fu per me un’ispirazione costante».Kurtág non parla se non ha a fianco Marta, prima ascoltatrice e giudice di ogni creazione.Marta è la sua memoria e «sa sempre ciò che intendo dire».Spesso è severa: «Ci sono momenti dell’opera in cui lei trova l’orchestrazione troppo densa e se non li cambio rischio il divorzio». La loro dimora è in Francia, ma da due anni abitano in un appartamento dentro il BMC per votarsi all’opera, «la quale ci è servita anche per prepararci a dire addio alla vita», avverte l’anziana e tenera coppia fusionale. «Prodigioso è l’ultimo monologo, che rende percepibile l’immensità della solitudine e spinge il viaggio in zone sempre più profonde». È stato Kurtág ad approntare in francese il libretto, che taglia sezioni del play e ne usa le parti più importanti, e che ha inserito come prologo la poesia di Beckett Roundelay. La storia di Hamm e Clov e dei loro giorni tutti identici, consumati in una casa condivisa coi genitori di Hamm, senza gambe e infilati in due bidoni della spazzatura, è pervasa da frustate di humour nero e da acide risate che si traducono in canto. L’opera è dedicata a Ferenc Farkas e a Tamás Blum. Due persone, dice Kurtág, che in gioventù lo introdussero alla lirica: «L’uno era mio insegnante e mi liberò da una paralisi creativa portandomi ad analizzare le partiture di Rigoletto e del Tabarro. L’altro, amico e organizzatore teatrale, mi assunse come pianista in un teatro dove conobbi la ricchezza del repertorio italiano. Senza Verdi e Puccini, ma anche senza Gesualdo e Monteverdi, non sarei divenuto un compositore».