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 2018  settembre 13 Giovedì calendario

L’intesa degli stati profondi

In superficie gli Stati si somigliano tutti.
Ogni Stato profondo è profondo a modo suo. Lo Stato è carta a due semi.
Il primo ostentato, perché attiene alla sua dimensione politica, non importa se elettiva, autodeterminata, ibrida.
L’altro seme della medesima carta è lo Stato profondo. Labirinto di burocrazie, funzioni e influenze quasi tutte note.
Prevalentemente pubbliche, ma spesso intrecciate, persino nello scambio di alti dirigenti, con lobby private, élite economico-finanziarie, potentati mediatici. Articolate in ministeri strategici, magistratura, amministrazioni di deliberazione e controllo, Forze armate e di polizia.
Oggi la potenza delle burocrazie è generalmente ascendente, in diretta proporzione al declino della classe politica. Specie nelle liberaldemocrazie di antico lignaggio. Qui la politica scade a narrazione, la legge perde di senso perché il disordine del mondo eccede le sottigliezze del giurista. L’orizzonte decisionale si calcola in minuti secondi e il dibattito pubblico, deprivato di riferimenti, miti e mete è ridotto a scariche di tweet. A differenza delle istituzioni politiche, esposte al trionfo e al recesso degli eletti, quelle amministrative sono dotate di vita propria, destinata a estinguersi solo con la fine dello Stato.
Le residue élite funzionali attive nel cuore degli Stati e nei simbiotici poteri privati o informali che vi si incistano coltivano in forme e con intensità diverse una deontologia di stampo vagamente luddista. Nel mondo della bomba atomica, dei satelliti e dell’intelligenza artificiale, sotto schiaffo è la ragione che fonda lo Stato moderno: la capacità di proteggere il suo popolo. Se saranno macchine a riconoscere o negare il pericolo, a che servirà lo Stato, profondo o superficiale? Di qui un senso di straniante fraternità tra apparati nemici. Almeno tra quelli responsabili. Più affini di quanto il chiasso mediatico lasci intuire, perché indisponibili a farsi comandare dai computer.
Vale in particolare per America e Russia.
Divise da asimmetrica inimicizia, lunga un secolo. In questa competizione i rispettivi Stati profondi si sono spesso intesi meglio dei leader politici di passaggio. Intanto per dovere: battere o contenere l’avversario impone di capirlo.
Dunque di parlarci e di ascoltarlo. Specie quando la pace è a rischio. È accaduto e si ripete in almeno due gravi crisi in corso – Ucraina e Siria – conflitti indiretti fra Mosca e Washington. Per impedire che diventino diretti, i vertici militari russi e americani comunicano quotidianamente nel timore che un contatto accidentale possa innescare la guerra calda.
Certo, esiste il telefono rosso fra i due presidenti. A parte volubilità e inesperienza tecnica del saltuario inquilino della Casa Bianca, il dialogo fra responsabili politici ha oggi meno senso che mai. Si rivela quasi sempre sterile.
Così illustrando la differenza ontologica fra i due Stati profondi. Putin e Trump sono omologhi per protocollo, non per funzione. Il relativo grado di intimità fra responsabili “profondi” – insomma veri – dei due imperi rivali ha basi più stabili ed efficienti delle conversazioni fra Trump e Putin. Sono vecchi nemici che si spiano da decenni. Spesso si stimano. Gli apparati russi e americani si scambiano colpi secondo codici sperimentati, riti da judoka. Ma negli ultimi anni sembrano aver perso in intensità di contatto.
Se tale parabola non ha prodotto danni irreparabili, una guerra fra Usa e Russia, lo si deve all’intimità maturata nella competizione di lungo periodo fra i due Stati profondi.