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 2018  settembre 13 Giovedì calendario

Quei cinesi (in crisi di nervi) a lezione di vino italiano

E ora qualche secondo per l’assaggio » . All’invito del sommelier, che la traduttrice replica in cinese, tutti portano lentamente il bicchiere alle labbra. Aspirano, tengono il vino in bocca per qualche attimo, poi sputano negli appositi contenitori. «Mango, pesca, tostatura: qui siamo sopra la media». La classe annuisce, prende appunti. Tra le ventidue persone strizzate nella stanzetta, i condizionatori a tenere viva l’aria, non manca la varietà. Tanti giovanissimi e in t- shirt, altri un po’ meno giovani con la cravatta. Un ragazzo con un berretto da rapper e l’orecchino si è tolto le scarpe, una ragazza con un succinto vestitino impugna una penna a forma di fenicottero rosa.
Sono arrivati dai quattro angoli della Cina per conoscere bouquet, tannini e altri segreti dei vini italiani, 3.500 euro per 15 ore, distribuite su tre weekend. E non si perdono una parola del loro insegnante, Roberto Anesi, premiato nel 2017 miglior sommelier tricolore dall’Associazione italiana sommelier.
Chardonnay, Franciacorta, Soave, dalle nove e mezza di questa domenica mattina pechinese si assaggiano bianchi. « Voglio imparare di più», dice Ou Ruiqi, 26 anni, quello vestito da rapper, che dopo la laurea in Scienze dell’alimentazione lavora in una cantina nello Xinjiang, estremo Est dell’impero: «Ho cominciato nel marketing, ma ho scoperto che mi piace stare in vigna». Ha portato un paio di bottiglie delle sue, Riesling, ne tiene una nella tascona dei pantaloni, pronto a mescere a richiesta.
Imparare per la nuova Cina è un comandamento, la chiave per distinguersi, per emergere. E anche chi lavora nel settore, la maggior parte qui sono importatori, dei vini italiani sa poco: «Manca del tutto l’educazione», spiega Rebecca Wang, 38 anni, ex studentessa della Bocconi che insieme al marito Jeff Gong ha creato il sito WineITA.com e Italian Wine Culture, l’associazione che organizza il corso. Siamo nella loro sede, non proprio l’open space dei vostri sogni, per terra c’è la moquette, ma gli scaffali (tricolori) di bottiglie coprono un’intera parete e sull’altra è appesa una cartina dei vitigni italiani.
A Rebecca leggi la passione negli occhi: «Facciamo storytelling, raccontiamo la cultura che sta dietro il vino: non ci rivolgiamo ai consumatori ma ai professionisti, perché a loro volta possano diventare degli educatori». È anche su frontiere come questa, in un anonimo palazzo affacciato su uno dei tanti ortogonali incroci di Pechino, che si gioca il futuro in Cina del made in Italy. Il nostro è un prodotto che va forte sui mercati maturi, mentre i nuovi ricchi del Dragone, che per tradizione berrebbero liquore di riso, hanno scoperto da poco la passione per bianchi e rossi. Mica è facile, si sfoga una ragazza che a Taiwan ha messo su una aziendina di import-export, raccapezzarsi tra Dop e Docg, sigle che anche a noi fanno girare un po’ la testa, ma non per l’euforia. Si rischiano belle fregature: una delle bottiglie che Anesi ha degustato ieri si è rivelata un vinaccio. Peccato che, tra l’imbarazzo generale, fosse un prodotto importato in Cina da uno degli alunni. Anche per questo i vini francesi qui ci stracciano ( 40 per cento circa dei litri importati contro il nostro 5 per cento): vitigno, regione, cantina, è semplice, più si va nello specifico più si alza la qualità. L’altra ragione è che i cugini fanno da tempo sistema: Carrefour è arrivato in Cina negli anni Ottanta e ognuno dei suoi supermercati ha una cantina. Per chi vuole risparmiare poi ci sono i cileni, che a differenza dei nostri vini non hanno dazi (su quelli cinesi, per il momento, meglio astenersi).
Eppure con l’evoluzione dei gusti e una classe media che lievita l’occasione è ghiotta: il mercato cinese, che nel 2016 valeva 15 miliardi di dollari, dovrebbe arrivare nel 2021 a 23, il secondo al mondo dietro gli Stati Uniti. I prossimi dieci anni saranno quelli della riscossa italiana? « Qui tutti sono concentratissimi » , dice Anesi, ragazzone trentino elegante e un po’ azzimato, come stile dei sommelier richiede. Certo gli tocca partire dalle basi, non dare nulla per scontato. Eppure lui — che di corsi ne ha tenuti in mezzo mondo — è stupito da tanta dedizione: «Sarà una delle cose che riporterò all’associazione al mio ritorno » . Dopo la pausa pranzo ( cinese) si torna in classe per la lezione pomeridiana. Tirano giù le persiane per proiettare delle slide sui 220 diversi aromi del vino. Nonostante un comprensibile abbiocco, stimolato dalla penombra e dall’arietta dei condizionatori, la classe continua a seguire. Quando in un passaggio lui cita l’Umbria, qualcuno si illumina: «Quella del tartufo!». «Mi piacerebbe lavorare in questo campo » , dice Li Mengru, 24 anni. Viene dallo Shandong, costa Est, ma si è trasferita a Pechino per studiare letteratura italiana. Spiega che la madre è una appassionata d’opera, a lei invece piacciono Calvino e Montale: « Per mantenermi faccio la traduttrice part- time di notizie sul vino » . Anche in Cina per i neolaureati trovare un impiego sta diventando complicato, chissà che tutto questo non torni utile: «Ma devo imparare di più».