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 2018  settembre 13 Giovedì calendario

La scrittrice che ha ucciso il romanzo


I miei libri non sono un punto d’arrivo: ciascuno, semmai, una nuova partenza. Ci ho messo molto a capire che la libertà di uno scrittore consiste nella verità di quel che scrive. E ancora non so esattamente qual è il modo migliore per comunicarlo. La creatività è costante evoluzione». Rachel Cusk, 51 anni, canadese che vive in Inghilterra, ha inseguito la sua idea di verità per 10 romanzi scritti in un quarto di secolo prima di approdare a quella trilogia appena completata dove traccia un grande affresco della natura umana attraverso personaggi che la protagonista, Faye — di cui sappiamo poco salvo che somiglia all’autrice — incontra per caso. E che le svelano aspetti della loro vita interagendo minimamente. La struttura narrativa inusuale — senza soluzione di continuità, pochi avverbi, molte digressioni — ha spinto pubblico e critica da Londra a New York a decretare addirittura la fine del romanzo.
La sua trilogia si legge d’un fiato.
(Ora esce in Italia il primo volume, Resoconto, Einaudi). Ma la critica la descrive come un lavoro complesso: evocando, appunto, la fine del romanzo.
«Non leggo le critiche. In passato il mio lavoro è stato violentemente attaccato e fu doloroso. Mi hanno fraintesa, la mia identità di scrittore confusa con i soggetti di cui scrivo. La trilogia è un cambio reale nel mio percorso: stilistico, ma anche di consapevolezza. Per arrivarci ho dovuto ignorare reazioni e critiche. Mi ripaga il fatto che alla fine mi viene riconosciuto che quel che sto provando a fare è unico. Anche se non è in alcun modo la fine di qualcosa».
Se non è la fine del romanzo è forse la fine della critica per come la conosciamo? Incapace di riconoscere e accettare le novità?
«Ho cercato di ripensare le convenzioni del romanzo moderno. Ero su una strada da cui era difficile uscire: e io volevo sentirmi libera. Non volevo camuffare il fatto che la narrazione è compromessa da diversi punti di vista, come invece fa la letteratura tradizionale. Ho dovuto stravolgere le convenzioni, in maniera intuitiva».
Faye, che come lei è una scrittrice di successo, in un passaggio parla di "letteratura negativa". Il "New Yorker" sostiene che si riferisce ai suoi stessi libri: ed è appunto il modo in cui denuncia che il romanzo è morto.
«Non mi riferivo al mio lavoro: pensavo a un certo tipo di letteratura minuziosa, onesta che però è nichilista e pessimista.
Autori come Thomas Bernhard, ad esempio. Le storie richiedono speranza. La creazione di qualcosa non può essere un’esperienza nichilista».
Se la trilogia non è autobiografica, come mai dal mestiere di scrittore al divorzio lei e Faye avete così tanto in comune?
«Il personaggio non sono io ma somiglia a molti. È una scelta narrativa: che comporta il parlare da vicino di cose che presumo di conoscere. La trilogia riflette sull’esperienza femminile, temi come vita domestica, relazioni sociali. Era importante che la scrittura sembrasse minuziosamente personale, ma è un artificio tecnico. Liberatorio perché non mi sono lasciata costringere dalla convenzione di dover inventare per Faye un passato. Mi avrebbe allontanato da quel che volevo dire».
Jeffrey Eugenides, che scandalizzò tutti col suo "Middlesex", definisce il suo lavoro "femminista".
«Sì. Ci avevo provato già in passato usando la formula del "memoir".
Ma non ha funzionato: se parli minuziosamente di qualcosa come l’esperienza contraddittoria della maternità, i lettori identificano come tuoi i sentimenti che sono del personaggio. E questo rende difficile dire cose reali su temi delicati. Ho cercato una strada diversa per parlare dell’essere femminile».
Nella vita reale anche lei come Feye presta tanta attenzione a quel che dicono gli altri?
«M’interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite: si creano, senza volerlo, piccole strutture narrative affascinanti. Ma poi, quando scriviamo, siamo impastoiati dalle convenzioni. È una delle cose che più m’interessa».
Sembrano riflessioni più adatte a un trattato che ad un romanzo…
«I miei libri riflettono sul senso della vita. Sono filosofici nel senso che la letteratura deve creare un mondo in cui vivere nel tempo, che parla di cambiamenti esistenziali.
Faye è in cerca di identità. E in questo deve esserci per forza un paradigma filosofico».
Com’è arrivata fin qui? Chi sono gli autori che l’hanno
formata?
«Non so a chi stessi pensando mentre scrivevo. Gli scrittori che si sono posti domande interessanti sono così tanti: il linguaggio è la moneta comune che condivido con tutti coloro che si sono confrontati con la verità».
Ha scritto un’introduzione a "Le piccola virtù" di Natalia Ginzburg dove dice di essere colpita dal modo in cui l’autrice si posizionava: distante ma mai distaccata. È quel che cerca di fare anche lei?
«Sì, anche se in modo diverso.
Ginzburg scriveva in modo pacifico, con semplicità ammirevole: la sua è una scrittura eterna. Incredibilmente capace di descrivere un’identità, non la sua semplice realizzazione».
Una trilogia è un progetto ambizioso.
«Ho pianificato solo il primo libro: scrivendo ho capito che per rispondere alle tante domande sollevate avevo bisogno di un secondo libro. E poi di un terzo.
Non immaginavo che sarebbe stato un progetto così ampio».
Il premio Nobel Kazuo Ishiguro ha detto di non riuscire a togliersi dalla testa il suo "Resoconto". È questo che si aspetta dai lettori? È questo quel che resta del romanzo?
«Quando scrivo non mi aspetto nulla. Il concetto è: entrate nel libro e cercate di trovare voi stessi nel suo spazio sospeso».
Parlando di trilogie e di storie di donne non possiamo non pensare al lavoro di Elena Ferrante.
«Il parallelo m’interessa. In comune abbiamo forse una certa franchezza nel descrivere le persone, parlare di sessualità e femminilità.
Forse è per questo che siano soprattutto le donne a interessarsi ai nostri lavori».
Harper’s l’ha definita "la più crudele romanziera contemporanea": sostenendo che è più interessata alla bellezza formale che alla morale.
«La bellezza formale è necessaria: ogni opera deve avere fascino. Ma la morale per me è la cosa più importante. Chi lo ha scritto mi ha fraintesa, si è fermato alla superficie».
Ora che la trilogia di Faye è conclusa, che capitolo si apre per Rachel Cusk?
«Sto per iniziare un nuovo romanzo, lavoro a uno spettacolo teatrale, mi sto misurando con la poesia. È uno di quei periodi di transizione che prima o poi si trasformerà in una nuova invenzione. Ma per ora ho soprattutto bisogno di una vacanza».