13 settembre 2018
Tags : Renzo Piano
Biografia di Renzo Piano
Renzo Piano, nato a Genova il 14 settembre 1937 (81 anni). Architetto. Senatore a vita (dal 30 agosto 2013). «Certo, l’architetto è anche un po’ artista, ma la sua prima preoccupazione non può essere lasciare un segno nel paesaggio: dev’essere far vivere meglio la gente. Se vedere l’arte come tecnica, come technè, è un’eresia, allora sono un po’ eretico» • «Mio padre era un piccolo costruttore, un po’ più di un capomastro; andava sempre in cantiere con la cravatta e il cappello. I miei zii erano così, mio fratello era così» (a Elvira Serra). «Quand’ero bambino, mio padre mi portava ogni domenica mattina a messa. Poi al porto. Papà era un genovese doc, e quindi non parlava quasi mai; ma allo spettacolo del porto di Genova negli anni ’50 non servivano parole. Non c’erano i container. Gli oggetti volavano. Le automobili in braccio alle gru. Come un viaggiatore senza valigia, che si sposta con le camicie in mano. Anche gli edifici si muovevano di continuo: le navi allora si chiamavano bastimenti, dal francese bâtiment, edificio appunto. Un capolavoro dell’effimero: tutto vola o galleggia, nulla tocca terra; ti viene voglia di costruire per sfidare la legge di gravità». «“In terza elementare un prete disse a mia madre che ero un asino senza speranza. Mi portarono pure dallo psichiatra, che sentenziò: il bambino è normale. Solo, non sapevo studiare, ero disattento. Al liceo ero sempre rimandato, un paio di volte mi bocciarono”. Tra i suoi amici a Genova c’era Gino Paoli. “Eravamo negli scout insieme. Ma lui era un capo, io un lupetto. […] All’epoca non cantava ancora; dipingeva. Una volta affrescò i muri della scuola. Io invece suonavo. La tromba. Fu proprio Paoli a convincermi che era meglio smettere”» (Aldo Cazzullo). «Siamo “figli di un temporale”, come diceva un altro di noi, Fabrizio De André: venuti fuori dalla guerra, cresciuti con la convinzione che ogni giorno ci allontanava da quella tragedia, che tutto – le strade, il cibo, il sorriso della mamma – sarebbe migliorato con il tempo». «Con lui e Luciano Berio vagheggiavamo di riscrivere l’inno: Fabrizio le parole, Luigi la musica, io avrei dovuto ridisegnare la bandiera… De André era solitario, adorabile, fragile. Non era una persona facile; un po’ come Genova, che è città introversa, segreta, poco espansiva. Genova e i genovesi si assomigliano. Montale diceva che ne esistono di due tipi: chi resta attaccato a Genova come una patella; e chi se ne va. Io me ne sono andato». «Quando a diciotto anni dissi a mio padre che volevo fare l’architetto mi disse: “Perché vuoi fare solo l’architetto quando puoi essere costruttore?”. Poi mi lasciò fare l’architetto». «La mia città di formazione è Milano. I primi due anni di università li avevo fatti a Firenze; ma mi annoiavo talmente… Firenze è bellissima: una città di perfezione. Ma poi uno si spara; perché è inutile fare l’architetto. Milano invece è imperfetta. E straordinaria. Ancora oggi». «Milano è stata la scoperta della vita. Gli anni più formativi. Il Sessantotto ce lo siamo fatti in casa, con cinque anni di anticipo. Di giorno cominciavo a lavorare, con Franco Albini, un maestro che insegnava senza dire un parola, come mio padre. La sera andavo nell’università occupata. Veniva Camilla Cederna a portarci i cioccolatini. È stato allora che ho cominciato ad allenarmi a fare l’architetto, a capire la gente. Come i miei coetanei, volevo cambiare il mondo; da figlio di costruttori, la maniera per farlo non poteva che essere questa». «Laureatosi al Politecnico di Milano nel 1964, […] inizia l’attività progettuale con una serie di studi sperimentali sulle strutture spaziali a guscio e su sistemi costruttivi innovativi, avendo come riferimento l’amico e maestro francese Jean Prouvé. Questi primi progetti […] vengono pubblicati su Domus e Casabella alla fine degli anni Sessanta, permettendo a Renzo Piano di affermarsi sul panorama nazionale» (Matteo Agnoletto). «Nel 1968 realizza un padiglione per la 14esima edizione della Triennale di Milano e nel 1969 viene incaricato di costruire il padiglione per l’industria italiana all’Esposizione universale di Osaka dell’anno successivo. La fama internazionale arriva nel 1971, quando vince, insieme agli architetti Gianfranco Franchini e Richard Rogers, il concorso internazionale per la realizzazione del Centro nazionale d’arte e di cultura Georges Pompidou di Parigi» (Grazia Torre). «Il modo più feroce, più esplicito di ribellarsi all’idea del centro culturale come mausoleo intimidente era fare una fabbrica. Una macchina come quelle pensate da Jules Verne. Ma anche un villaggio medievale in verticale, con le piazze sovrapposte. Una macchina urbana, aperta, trasparente, flessibile: tutto quello che ingombra l’abbiamo portato fuori, comprese le scale mobili, che svelano Parigi poco a poco. Il Beaubourg ogni sabato ha 30 mila abitanti, in 40 anni l’hanno visitato 250 milioni di persone. Al concorso partecipammo in 681. Il Sessantotto era finito da poco, Rogers e io vivevamo a Londra. Non pensammo di vincere per un solo attimo». «Parigi, dunque, la seconda patria, ma anche l’America, sempre in quei favolosi anni a cavallo tra i ’60 e i ’70. “A Filadelfia, alla Penn University, per un breve tempo ho fatto l’assistente di Robert Le Ricolais (un autentico personaggio, come gli amati Wachsmann e Fuller), che, attraverso la matematica, la fisica e l’ingegneria, ci aiutava a scoprire la natura delle cose, avvicinandomi al mondo delle tensostrutture. Lì conobbi Kahn, con cui ogni tanto si prendeva il tè delle cinque e a cui lui mi presentò quando il maestro stava disegnando lo stabilimento Olivetti ad Harrisburg, in Pennsylvania. Gli serviva un aiuto per disegnare i lucernai dello stabilimento fatto a moduli ottagonali, e io feci delle piramidi in fiberglass che furono montate con l’aiuto di elicotteri”. Fu il primo incontro con gli States: ma dieci anni dopo il filo rosso si riannoda, e a partire dal 1985, quando Dominique de Menil gli commissiona la sua Fondazione a Houston, gli Stati Uniti diventano la nazione dove si concentra la maggior parte dei suoi progetti (“dei venti che ho adesso sulla scrivania, otto sono lì, tra New York, Los Angeles, San Francisco, tutti con una valenza pubblica tecnico-scientifica”). Nel 1998 Bill Clinton gli apre le porte della Casa Bianca, consegnandogli il Premio Pritzker; nel 2006 è il primo italiano inserito dal Time tra le dieci personalità più influenti del mondo: Renzo il genovese riconquista l’America alla cultura europea» (Fulvio Irace). Nel corso degli anni, il Renzo Piano Building Workshop, fondato nel 1981 con uffici a Parigi, Genova e New York, ha realizzato numerosissimi progetti di grande rilievo in ambito nazionale e internazionale, tra i quali lo stadio San Nicola di Bari, il Lingotto a Torino, l’aeroporto del Kansai a Osaka, la riqualificazione dell’area del Porto Antico a Genova, il Museo della scienza e della tecnica ad Amsterdam, il rifacimento della Potsdamer Platz di Berlino, il centro culturale Jean-Marie Tjibaou di Numea (Nuova Caledonia), il museo della Fondazione Beyeler a Riehen (Basilea), l’Auditorium Parco della musica a Roma, il santuario di San Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo, il Centro Paul Klee a Berna, il grattacielo The Shard a Londra, l’ampliamento della California Academy of Sciences di San Francisco, la ristrutturazione della Morgan Library e il New York Times Building a New York, il nuovo Palazzo di giustizia di Parigi. «“Non mi è mai piaciuto pensare a quello che avevo già fatto, ma guardare al futuro, ai miei prossimi progetti”. Certo non pochi, almeno scorrendo l’elenco dei cantieri in corso: l’Academy Museum of Motion Picture di Los Angeles, in pratica il museo degli Oscar; il Centro di chirurgia pediatrica a Entebbe in Uganda (in collaborazione con Emergency); il museo archeologico di Beirut; il Lenfest Center for the Arts, il Jerome L. Greene Science Center e il Forum, tutti per la Columbia University; l’École normale supérieure de Paris-Saclay; la trasformazione di un’ex centrale elettrica oggi in disarmo, subito alle spalle del Cremlino, […] due ettari di degrado urbanistico destinati a diventare il nuovo polo artistico-culturale di Mosca. A cui si aggiunge l’impegno continuo che ha preso corpo dopo la nomina a senatore a vita, legato al gruppo di lavoro G124, che prende il nome dal numero dell’ufficio di Piano a Palazzo Giustiniani [la stanza senatoriale numero 24 al primo piano dell’edificio – ndr], trasformato in un laboratorio per progettare la riqualificazione delle periferie delle città italiane» (Stefano Bucci). Nell’agosto del 2018, due settimane dopo il tragico crollo del Ponte Morandi di Genova, Piano ha offerto gratuitamente alla città la sua «idea di ponte» per il nuovo viadotto da costruire. «Il “ritratto della genovesità”, per dirla con il suo autore, è uno schizzo. […] Il lembo est della città è legato a quello ovest da una striscia d’asfalto che corre su tantissimi pilastri, la cui forma – se guardati da nord o da sud – ricorda la prua delle navi. Niente stralli, e campate corte, a esclusione di quelle che passano sulla ferrovia e sul Polcevera, un po’ più lunghe. Rigore e sobrietà. O, per dirla ancora con lo stesso Renzo Piano, “un’idea di ponte che esprime anche un po’ della nostra parsimonia, del nostro atteggiamento”. Non più un ponte da attraversare al buio, ma costellato di altissimi steli che di notte lo illumineranno: lampioni dalla cui sommità si irradieranno luci a forma di vele. Ogni notte una regata nel buio della valle, per illuminare il ricordo di chi non c’è più. Perché quei lampioni saranno 43, uno per ciascuna delle vite schiacciate e perdute sotto le macerie del Morandi» (Giusi Fasano) • «La Fondazione Renzo Piano, fondata nel 2004 a Genova, è un ente no-profit dedicato alla promozione di diverse attività, come la conservazione e valorizzazione dell’archivio dello Studio Renzo Piano e la formazione e la didattica, comprese borse di studio, pubblicazione di libri e promozione di mostre. […] La fondazione inoltre promuove ogni anno stages presso gli uffici della RPBW di Genova e Parigi rivolti a 15 studenti iscritti all’ultimo anno delle facoltà di Architettura» (Torre). «Nella mia vita ho avuto modelli straordinari, ma ho capito fin da ragazzo, quando ero ribelle, che dei maestri si ha rispetto, ma che poi bisogna liberarsene. Ogni anno apro le porte del mio ufficio a 15 ragazzi di tutto il mondo: lì, fra progetti complessi e gente di tutte le nazionalità, nello stare a bottega si esercita la maestria». «Io sono un educatore un po’ anomalo. Ai giovani dico: abbiate coraggio, buttatevi, prendete qualche rischio. Osate. E così c’è un momento magico in cui, improvvisamente, scopri con straordinaria sorpresa la scintilla della creatività» • «Io ho avuto molti maestri, ma mi piace citare soprattutto quelli italiani. A cominciare da Franco Albini, che mi ha insegnato la meticolosità del mestiere. Poi Marco Zanuso, del quale sono stato assistente e dal quale ho appreso il rigore tecnico. Sul piano etico devo molto a Giancarlo De Carlo, il maestro dell’architettura che ha una coscienza» • Tre figli dalla prima moglie, uno dalla seconda • «La Milly [Emilia Rossato, la seconda e attuale consorte – ndr] mi ha tolto tutti i vizi. Mi ha lasciato solo il cioccolato e il grappino la sera» • Va abitualmente in giro con un metro in tasca. «Misurare è un gesto di conoscenza: è un modo per impossessarsi delle cose, non nel senso ignobile della parola: significa capirle. I miei amici mi chiamano geometra, misuratore della terra» • «Io vado sempre in giro con un foglietto piegato […] e lì dentro ci metto di tutto, ma soprattutto schizzi brutti, perché uno dei rischi peggiori per un architetto è fare schizzi belli, perché allora resta incastrato. Gli schizzi sono appunti, rapidi». «Questa ossessione del prendere appunti, del “rubare dal quotidiano”, è […] un comportamento comune a tutti quelli che non hanno mai creduto all’impulso creativo selvaggio. E, da buon genovese del segno della Vergine, è una cosa che ti resta dentro tutta la vita» • Grande passione per la barca a vela. «“La barca è il mio rifugio, il luogo del silenzio. Il mare per un ragazzo nato e cresciuto a Genova rappresenta le radici, quello che io chiamo il mio ‘local’. È quel mare scuro che si muove anche di notte, che non si ferma mai, come nella canzone di Paolo Conte”. Di barche e di mare Renzo Piano potrebbe parlare per ore: “Ne ho avute sei in vita mia. La prima l’ho proprio costruita con le mie mani, in garage: era lunga sette metri e alla fine non passava dalla porta. Le ho sempre disegnate io. L’ultima, il veliero che ho adesso, il Kirribilly, prende il nome da un golfo e da un quartiere di Sydney dove ho costruito una torre a forma di vela; è un nome maori, nella lingua degli aborigeni vuol dire ‘luogo pescoso’”. Come bandiera ha scelto la riproduzione di un quadro di Paul Klee del ’38: “Una testa colorata, quando si muove nel vento un’immagine bellissima”» (Laura Laurenzi) • «La sinistra? Mi fa soffrire. Ce l’ho nell’anima». Da sempre molto critico con Berlusconi, lo è invece molto meno con Beppe Grillo, suo amico personale. «Come si fa a non essere d’accordo su molte premesse da cui parte Grillo? La moralizzazione della vita pubblica, il rinnovamento della politica, l’attenzione all’ambiente e alle energie rinnovabili… Grillo però deve rendersi conto che l’Europa non va demolita. Va costruita pietra su pietra. Va cambiata, con tenacia, pazienza, lavoro. Ma non si può demolire. Perché sotto le sue macerie finiremmo tutti» • «L’architetto è un mestiere politico. La ricerca estetizzante della bellezza, quando è fine a se stessa, è inutile. Ma Senghor, con cui lavorai in Senegal, mi ha insegnato che il bello, quando è autentico, non è mai disgiunto dal buono. È l’idea dei greci: kalós kài agathós, bello e buono. È un’idea che ho ritrovato in Libano. È il principio della civiltà mediterranea, oggi messa così a dura prova». «Quando assumiamo l’incarico, cerco di attenermi in maniera ferrea a una regola: non toccare la matita se prima non sono andato avanti e indietro sul posto con le mani in tasca, cercando di capire, ascoltare, cogliere l’essenza, in silenzio. I luoghi, come le persone, parlano: basta saperli ascoltare». «Ogni tanto, la notte, mi diverto a tornare sul luogo del delitto. Vado su Google Earth, a vedermi le varie opere. L’Art Institute di Chicago, il simbolo dell’orgoglio civile della città di Obama. L’Academy of Sciences di San Francisco. L’aeroporto di Osaka…».