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 2018  settembre 12 Mercoledì calendario

Se la funzione del telecronista regredisce a livello scolastico

Perché i telecronisti hanno paura del silenzio? Perché parlano incessantemente per 90 minuti, più i tempi supplementari? Vogliono essere loro i veri protagonisti della partita o esiste una ragione più profonda?
Su Rai1, lunedì sera, la nazionale italiana stava perdendo con il Portogallo e Alberto Rimedio e Antonio Di Gennaro (peraltro molto bravo) parlavano, parlavano, parlavano… Temo che negli ultimi anni, la telecronaca abbia cambiato genere: dal racconto (una narrazione ha bisogno di pause, di silenzi, di respiri, soprattutto di grande fiducia nel lettore) siamo passati alla parafrasi. Se consideriamo ancora il gioco del calcio come un testo («mistero senza fine bello», lo definiva Gianni Brera, rubando un verso a una poesia di Guido Gozzano dedicata alla donna), la funzione del telecronista è regredita a livello scolastico, come se gli spettatori-alunni non fossero più in grado di comprendere quello che stanno vedendo.
I vecchi manuali di retorica ci hanno insegnato che la parafrasi è la ritrascrizione in termini più facili ed espliciti di un testo, possibilmente non cambiando i contenuti e l’informazione. Tuttavia, il risultato è che la parafrasi propone per sua natura un equivalente semplice del discorso complesso. Quando vediamo una straordinaria azione di gioco è come sentire il poeta che dice «nel mezzo del cammin di nostra vita», ma le parole che giungono a noi sono altre: a 35 anni, nel 1500, Dante intraprende… Viviamo in un’epoca in cui persino i bordocampisti sono illuminati dalla vocazione parafrastica ed esegetica. A furia di parlare, parlare, parlare, c’è il rischio che di una partita si ricordi non la poesia (se c’è) ma la parafrasi (c’è sempre), si ricordi un testo purgato di ogni intima bellezza. Solo il silenzio ci mette in contatto diretto con l’incanto poetico. Il mistero senza fine bello ha bisogno di restare poesia, non di essere costantemente tradotto in prosa.