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 2018  settembre 08 Sabato calendario

Il manuale di Gadda per parlare alla radio

Non era molto contento di lavorare alla radio, Carlo Emilio Gadda. È il 1950, ha 57 anni e qualche difficoltà economica. Accetta un contratto semestrale rinnovabile, «praticante giornalista» al giornale radio. Si occupa di cultura, poi passa al Terzo programma, l’attuale Radio 3, che è appena nato. Siamo a Roma, via Asiago 10 e la radio è quella della Rai. C’è solo quella. Ci rimane cinque anni, poi si licenzia perché dalle case editrici comincia ad arrivargli qualche soldo e si può dedicare alla revisione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. 
La chiama «la gentile Radio Italiana», perché gli passa uno stipendio: «Devo il posto ed il pane, scrive all’amico Gianfranco Contini, alla caritativa gentilezza di Angioletti, mio superiore nella gerarchia». Si sente un po’ soffocato: «qui sono una specie di bidello scartoffiante che si sforza di dissimulare a se stesso la sua situazione con pigolare variamente al microfono De omnibus rebus et de quibusdam aliis (di tutte le cose e di alcune altre)». Anche la sistemazione che ha trovato a Roma, lasciando la Firenze dei café letterari, lo fa tribolare. Sta in una camera d’affitto dove, «dopo una giornata di lavoro, trovo una vecchia megera che non posso permettermi il lusso di strozzare perché Roma è piena di carabinieri e tribunali».
Il lavoro consiste nel rivedere testi di altri: aggiusta, lima, riscrive. Ma scrive anche testi suoi: presentazioni, recensioni, note introduttive. Anche un programma di un’ora su Cristoforo Colombo che chiude con una poesia di Guido Gozzano, quella che noi conosciamo tramite Francesco Guccini. Per lasciare in sospeso il finale:

Ma bella più di tutte l’Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s’ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma sugellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.

Partecipa anche a trasmissioni più popolari. Per Buona convivenza, che va in onda la domenica ed è una specie di galateo moderno, scrive su come ci si comporta Al ristorante, In ufficio e Come vivere nel caseggiato. Fa il feroce e qui sembra almeno divertirsi un po’. È sempre tutto scritto: siamo negli anni della radio scritta e si va in onda con un foglio in mano. Si legge fingendo di non leggere. 
Scrive le Norme per la redazione di un testo radiofonico nel 1953. È un testo anonimo, pubblicato dalla Eri, la casa editrice della Rai, intestato Terzo Programma della Radio italiana. Un libretto agile, ad uso interno. Lo danno ai nuovi collaboratori insieme al contratto. Dicono che molti intellettuali chiamati a lavorare per la radio quando se lo trovano in mano restano un po’ stizziti. Sono scrittori, accademici, uomini di lettere. Gente che parla in pubblico. E allora – pensano – che differenza c’è tra farlo in una lezione all’università, una conferenza, un libro invece che alla radio?La differenza c’è, perché la radio è un mezzo particolare. Gadda lo ha capito e regala agli intellettuali di allora e a tutti, ancora adesso, questo testo «di servizio». Lui, che sta diventando uno dei più grandi scrittori del ’900, adesso è un giornalista di un ente pubblico e questo, servizio pubblico, gli pare un valore alto. 
C’è un pubblico e va rispettato. Per non farlo morire di noia, per non farlo scappare su un altro canale – anche se sono tutti canali Rai – per non aggiungere la fatica di ascoltare alla fatica che già si fa a tirare avanti.  Quindi regole precise. Quello che serve e quello che ostacola. Servono pochi preamboli, non serve girarci intorno, serve entrare subito nel vivo della questione. Servono periodi brevi, serve leggerezza e ci si arriva eliminando il superfluo. Serve che chi va in onda, «il radiocollaboratore», non sia un maestro saccente, un giudice o un profeta. Ma un «informatore», un «gradevole interlocutore», un amico. A volte lui, il radiocollaboratore, con il suo sapere, la «finezza e la sua sapienza» diventa insopportabile. Irrita l’ascoltatore, lo mette in ansia, indispone. Crea quel «complesso di inferiorità culturale» che, dice chiaro Gadda, «è una calamità radiofonica». Ha già visto, lì alla radio, il rischio che chi sa di più stia sulle scatole a chi sa meno. La crisi delle élite culturali che adesso interroga l’Occidente.
Ottime regole. Una visione della radio e del suo specifico – primo, fra tanti, quella della vicinanza percepita tra chi parla e chi ascolta – che continua a valere anche dopo la frattura del 1976. Quando la Corte Costituzionale dice che l’etere è di tutti e in poche mesi le radio si moltiplicano, diventano migliaia. E davanti ad un microfono si siedono centinaia di migliaia di persone che non lo avevano mai fatto prima. Senza testi scritti, spesso improvvisando. Parlando una lingua radiofonica diversa: un parlato-parlato. Anche questo viene da un grande modello: quello che Renzo Arbore e Gianni Boncompagni hanno messo a punto alla Radio della Rai con Alto Gradimento. Un manuale, questo, ancora da scrivere.