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 2018  settembre 08 Sabato calendario

Noi, dieci anni senza David Foster Wallace

Il 12 settembre 2008 morì suicida a soli 46 anni nella sua casa di Claremont, in California, David Foster Wallace, per i fan DFW, tra i più importanti e amati esponenti del postmoderno letterario, sofferente fin da ragazzo di una grave forma di depressione. Dopo la morte gli sono stati dedicati saggi (come la biografia Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi di D. T. Max, Einaudi Stile libero, 2012), convegni, gruppi di lettura, romanzi e il film The End of the Tour – Un viaggio con David Foster Wallace (2015) di James Ponsoldt.
Nel decennale della morte, dedichiamo un omaggio a questo autore di romanzi, racconti e saggi tutti divenuti di culto (ancor più dopo la morte), come il monumentale e complesso Infinite Jest (1.281 pagine nell’edizione di Einaudi Stile libero, tradotta da Edoardo Nesi con Annalisa Villoresi e Grazia Giua). In questa pagina, lo scrittore Demetrio Paolin racconta il memoir scritto dalla moglie di Foster Wallace, Karen Green, Il ramo spezzato, uscito perBaldini+Castoldi nella traduzione di Martina Testa, accorato ricordo dell’uomo e del compagno di vita.
Nella pagina, inoltre, il poeta Simone Savogin, più volte vincitore dei Campionati italiani di Poetry Slam, dedica a David Foster Wallace il suo inedito Al pallido re /che faceva cose divertenti. Un componimento il cui titolo cita due opere di Wallace (il postumo Il re pallido, Einaudi Stile libero, e il saggio Una cosa divertente che non farò mai più, minimum fax), poesia densa di suggestioni ed echi nascosti (i versi «in te eri infiniti / gesti» riecheggiano il titolo Infinite Jest, mentre cercare è anagramma di carcere) che incarnano il suo postmoderno «spezzato» e la sofferenza che l’ha accompagnato. 

Il ramo spezzato di Karen Green (Baldini+Castoldi, traduzione di Martina Testa, pp. 192, e 26) è un libro bellissimo che pone non poche difficoltà a chi provi a recensirlo. Se lo si dovesse ascrivere a un genere, allora dovremo definirlo un memoir, in cui una donna racconta la propria vita dopo la morte del marito. Ora sul memoir, come categoria letteraria, si possono sollevare diverse perplessità, che è possibile riassumere così: «Non ho un debole per i memoir abreativi o confessionali. (…) il vero motivo è che non mi fido di loro. (…) Non tanto della loro verità fattuale quanto dei loro intenti». A scrivere queste parole è David Foster Wallace che è, poi, il protagonista silente de Il ramo spezzato, che appunto racconta la storia di chi è sopravvissuto al suicidio dello scrittore americano. 
A complicare ancora di più la vicenda è l’oggetto editoriale in sé: il testo è composto da brevi prose paratattiche, che occupano non più di una facciata e accompagnate da alcune immagini. La Green lavora proprio per sottrarre il suo testo e la sua storia, sin dalla struttura esterna del libro, al pregiudizio di avere davanti a sé una storia lacrimevole e di tristezza. Ci sono poi a ben vedere anche alcune scelte stilistiche (potremmo catalogarle come «lacuna»), che danno al libro un andamento inusitato e diverso. La prima, la più lampante, è l’assenza del nome di DFW, che non viene mai pronunciato; come se la morte avesse portato via l’essenza pubblica dell’uomo, ma rimanesse il privato, ciò che nessuno conosceva e che soltanto la moglie ha diritto di ricordare: «La tua borsa da viaggio simulato puzza di sigarette American Spirit, fra le cinture è rimasta incastrata qualche pillola coperta di peluria». 
La breve citazione dà, anche, l’idea della peculiarità de Il ramo spezzato rispetto al memoir classico. Le sue prose sono dei brevi poemetti in prosa, la massima concentrazione d’informazioni, sentimenti, idee nel minor numero di parole possibili. Questo produce testi al limite della reticenza, in cui ciò che leggiamo è solo un lampo di pochi secondi a illuminare qualcosa di enorme; è un’altra «lacuna» in altro modo di dire ciò che è per sua natura ineffabile: «C’è un corpo laggiù, un corpo da cui l’anima ha levato le tende, un corpo che era il mio corpo da amare e da guardare». L’amato morto è evocato per il suo corpo: la presenza fisica si fa mancanza e desiderio, come quando l’autrice vorrebbe prendere i genitori di Wallace e «sbattere forte queste due persone minute (…) e vedere se una collisione di Dna mi restituirà la mia vita». Infine la punteggiatura (altra ossessione di DFW usare le virgole come gli «a capo» dei versi), l’ultima lacuna, ne Il ramo spezzato l’interpunzione non è legata a una logica di sintassi ma di ritmo; ci sono intere sequenze e paragrafi senza punteggiatura, ma durante la lettura non si avverte l’artificio, ma il tentativo di trovare una grammatica nuova per «ricordare le cose tenere con tenerezza».