La Stampa, 8 settembre 2018
Intervista all’esploratore Alex Bellini
Esploratore, atleta, mental coach, Alex Bellini, 40 anni tra una settimana, di Aprica in Valtellina, una moglie e due figlie, ha sulla sua scia imprese incredibili: 2 mila km a piedi in Alaska lungo l’Iditarod, la gara con i cani da slitta; la Los Angeles-New York, 5300 km di corsa in 70 giorni; l’Atlantico e il Pacifico a remi; il Vatnajökull, il ghiacciaio più grande d’Europa, sugli sci. E ora si appresta a navigare i dieci fiumi più inquinati del mondo. Sempre oltre i limiti.
Bellini, quando comincia a sognare l’impossibile?
«A 8 anni. Mia nonna mi regalò un orologio la cui cifra era quella delle sfide estreme. Lo vendevano insieme a un libro fotografico con le imprese dei suoi testimonial. C’era un francese, Gerard De Bouville, che aveva compiuto la traversata dell’Atlantico a remi: la sua storia mi folgorò…».
Precedenti in famiglia?
«Mio padre era un viaggiatore degli Anni 80, di quelli che partivano incrociando le dita. Appassionato di moto e d’Africa seguiva le rotte della Parigi-Dakar. Gestiva un hotel ad Aprica e una volta l’anno, a fine stagione, si dava il permesso di partire».
Lei invece che fa?
«Tre anni di Scienze bancarie. Non ero portato, c’era una parte di me che sopprimevo. Mi chiesi: che vuoi veramente? Prevalse la mia natura montanara, la terapia era il bosco: solo che quella volta andai a cercare la risposta in Alaska».
Corre l’Alaska ultrasport extreme e l’Alaska ultrasport impossible…
«La prima volta 600 km: mi ero costruito una slitta che sembra una cassa da morto, sbagliata per quei sentieri. Piansi al secondo giorno, ma completai il percorso, ultimo al traguardo. Fu un rito propiziatorio. L’anno seguente feci 1400 km e andò meglio».
Come finisce nell’Atlantico?
«In Alaska mi chiesi che cosa potevo fare per allontanarmi ancora di più dalla mia comfort zone… Fu un salto nel buio. Partii da Genova, il primo tentativo durò 6 ore. Il secondo 23 giorni con un naufragio. Per tutti ero il “folle di Aprica”. Ma non mi fermai, perché non ero ancora giunto al livello della resa».
Alla fine raggiunge Fortaleza in Brasile dopo 226 giorni e 11 mila km di remate. Una passeggiata?
«Insomma. Dopo sei mesi restai senza cibo, mi rifornirono due navi ma non bastò: restai a digiuno 5 giorni prima di raggiungere l’arcipelago di S. Pedro e S. Paolo e temetti per la mia vita. Fu un inferno, ma da quel momento seppi che avrei potuto affrontare qualsiasi cosa. Nel mental coaching questo si chiama mind set ed è l’argomento centrale del mio nuovo libro (Oltre, Roi Edizioni), in cui racconto quanto ho appreso su me stesso, applicato sulla mia pelle».
Può spiegare?
«Nasciamo con un mind set, o forma mentis, fisso o in crescita. Il primo davanti a una sfida difficile ci porta a dire: “Non ce la faccio”; il secondo ci induce a pensare che magari non ci riusciremo al primo tentativo, ma che se ci alleneremo… Oggi ho l’impressione che si abbia perso questa voglia di farcela: se la sfida non è da subito facile lasciamo perdere».
Si può passare da un mind set all’altro?
«Una delle mie figlie diceva che non ce l’avrebbe mai fatta ad andare in bici. Le abbiamo insegnato ad aggiungere “ancora” al termine della frase: non ce la faccio ancora… Significa speranza, apertura al futuro. Un altro trucco è chiedersi: e se quello che penso fosse sbagliato? Bisogna essere consapevoli del chiacchiericcio che avviene nella nostra testa, che è lo specchio della forma mentis».
L’Atlantico affina la sua apertura al futuro?
«Non solo. Rafforzò anche la mia auto-efficacia. Sceso da quella barca, avevo solidificato la sensazione di potercela fare: e questo è stato uno degli anelli che mi hanno poi portato nel Pacifico, nonostante a Fortaleza avessi detto “mai più”».
Un altro Oceano…
«Prima però mi sposo. E la mia vita cambia. Volevo una famiglia, non potevo più vivere di lavori stagionali per pagarmi le imprese, dovevo diventare imprenditore dell’avventura».
La famiglia è un freno o un aiuto?
«Nel Pacifico arrivai al punto di pensare che sarebbe stato meglio morire che proseguire. Ma mi dissi: se non vuoi farlo per te, fallo per tua moglie, per i figli che verranno. E sono andato avanti. Ora loro sono il mio super-potere».
Che altro ha imparato?
«Che non è possibile controllare l’ambiente. Sull’Atlantico avevo paura di andare a dormire, perché smettendo di remare avrei perso miglia. Così mi coricavo con i pugni serrati, dormivo male. “Se continuo così muoio”… E iniziai a lasciare andare. “Mare fai quello che vuoi…”. Una rivelazione. Vale ovunque: bisogna imparare a capire che cosa ci dà e ci toglie energia. Le arrabbiature, i risentimenti, i nervosismi sono zavorra…. E non bisogna nemmeno proiettarsi troppo nel futuro, perché così non si ottimizza il presente».
E dopo il Pacifico?
«Volevo capire meglio la distanza che avevo percorso tra i due Oceani e ho corso la LA-NY footrace, che mi è servita per approfondire i meccanismi dell’ipnosi e dell’auto-ipnosi - riuscivo a spostare i dolori da una caviglia a un polso o a ridurli - e la gestione del ritmo. Ho continuato a esplorare insomma l’essere umano, l’ambiente meno conosciuto».
I prossimi obiettivi?
«Mi appresto a navigare i 10 fiumi più inquinati e l’isola di plastica del Pacifico. È il mio modo di restituire alla natura (Bellini è ambassador di One Ocean Foundation): l’esploratore non deve denunciare, ma far sapere. Se non conosci, non ami e non conservi».