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 2018  settembre 08 Sabato calendario

Starbucks a Milano, mia nonna con la moka la faceva più semplice

Se non sapete che a Milano ha aperto il primo Starbucks della nazione ci sono solo due possibilità: o vivete nell’area 51 infilati nel barattolo per alieni in salamoia o le notizie ve le filtra Rocco Casalino. L’evento ha avuto infatti una copertura mediatica impressionante, ma non c’è da stupirsi: apre una caffetteria in Italia. Vi rendete conto? È come se aprisse un sushi bar a Tokyo, una cevicheria in Perù, una piadineria a Riccione. Quelle cose che non ti aspetti, destinate a rivoluzionare abitudini e catena alimentare di un’intera nazione. Di fronte a questo evento di natura quasi insurrezionale, il Paese si è diviso in due fazioni: c’è la corrente Di Maio, per la quale l’apertura di Starbucks è un’opportunità di lavoro per molti ragazzi e quella salviniana, per cui #primailcaffèitaliano e quella bevanda nera che se la bevessero a casa loro. Chiudete i porti alle navi cargo brasiliane.
Il caffè lungo in tazza giusto a Malta. Perfino la storia del fondatore di Starbucks, Howard Schultz, è molto italiana. A un certo punto della sua vita, pur di far quadrare i bilanci, s’è messo a vendere il suo sangue. Ora sappiamo perché il povero Salvini si è fatto fotografare spesso sul lettino col laccio emostatico. Poi ci sono quelli che il giorno dell’inaugurazione, alle quattro del mattino, erano già in fila per essere i primi a entrare in uno degli esclusivissimi 3500 Starbucks del mondo a cui andrebbe dato il Tso di cittadinanza. Diciamolo: se sei italiano e punti la sveglia alle tre per andarti a prendere un caffè colombiano in Cordusio, vuol dire che nei test sulle personalità borderline riesci a fare peggio di Anna Oxa.
Del resto, la città di Milano ha vissuto questa apertura come l’evento del 2018: piazza Cordusio, giovedì, è stata chiusa al traffico dalle 16 e ai pedoni dalle 19, manco sotto la macchina del caffè avessero trovato un ordigno della Seconda guerra mondiale.
Il general manager di Starbucks ha dichiarato che per il punto vendita di Milano sono stati assunti 300 giovani da tutto il mondo. Trecento? Per fare dei caffè in una caffetteria? Mia nonna con una moka da 40 ml a Natale riesce a servire 78 caffè in sei turni a tutti i parenti, vicino di casa che porta la stella di Natale a mezzanotte compreso. Devo suggerire al general manager di Starbucks di contattarla per formare il personale. Va ricordato comunque che questo non è un normale Starbucks. Intanto, per dimensioni, è il terzo più grande del mondo. 2.300 mq, quindi se dite a una ragazza “ci vediamo da Starbucks per un caffè?”, sappiate che potreste non incontrarla mai. Poi si chiama Reserve Roastery, mica caffetteria. Poi nel negozio c’è l’impianto di torrefazione a vista, per cui i silos vengono caricati a lotti di 60 kg, il caffè tostato in 15 minuti e fatto passare attraverso dei tubi appesi al soffitto con sifoni e azoto liquido. Continuo a dire che mia nonna con la moka la faceva più semplice. Qui uno chiede un caffè e si aziona la macchina del tempo.
Comunque, siccome da Starbucks all’estero io ci vado e di sicuro non per il caffè servito alla temperatura di Venere ma per le bombe caloriche servite al posto dei nostri miseri cappuccini e delle nostre modeste brioches, ero già tutta gasata all’idea di dopare il mio colesterolo con una capatina in Cordusio e invece ho fatto un’amara scoperta. Non ci sono i frappuccini. Rendiamoci conto. Cioè, va bene che l’Italia in fatto di caffè è esigente, va bene che Milano è fighetta, però qualcuno spieghi al signor Starbucks che a Milano abbiamo Miuccia Prada ma pure Fabrizio Corona. È come entrare in un negozio Birkenstock e scoprire che dentro ci sono solo mocassini in pelo di cavallo pezzato. No, io voglio la ciabatta da tedesco alle Canarie. Voglio il frappuccino. Voglio uscire da Starbucks con i trigliceridi provati. Voglio sedermi al tavolo dopo aver fatto tre ore di fila (perché assumeranno pure 300 persone ma poi c’è sempre una ragazza sola che fa tutto, dal preparare il latte macchiato allo scrivere il tuo nome con la pronuncia uzbeka sul bicchiere), sollevare il muffin al cioccolato da sei etti dalla busta e intingerlo nella panna del mio frappuccino alla fragola il cui apporto calorico Chiara Ferragni se lo fa bastare sei mesi. E invece no. Fanno l’affogato con pallina di gelato raffreddata con azoto liquido. Fanno il Nitro Flat White. Fanno l’espresso frizzante, con acqua gassata, roba che se in Italia non volevano essere blasfemi, quando a Napoli arriva voce del caffè frizzante, le nuove puntate di Gomorra le girano in presa diretta da Starbucks a Milano. Cracco, dopo le polemiche sulla pizza eretica servita nel suo ristorante, è andato in terapia di gruppo con quello che ha detto che la mozzarella si poteva fare pure a Treviso e quello che ha detto che la pizza salsiccia e friarielli è pesante. Inoltre, c’è anche la degustazione di tre caffè in tazza, roba che se sei uno vagamente irascibile, esci da Starbucks e accoltelli il primo che ti sorpassa al semaforo.
Per il resto, da Starbucks in Cordusio, oltre alle cento varietà di caffè ci sono cocktail per l’irrinunciabile aperitivo milanese e la pizza di Princi per l’irrinunciabile voglia di pizza degli italiani. Mancano solo il tizio che suoni l’irrinunciabile mandolino e il cartonato di Monica Bellucci a dare il benvenuto all’ingresso e il nostro provincialismo è assecondato in via definitiva. Evviva il frappuccino.