Il Messaggero, 8 settembre 2018
Ricordo di Piero Calamandrei
Quando nel 1952 il feldmaresciallo Kesselring, condannato per crimini di guerra contro i nostri partigiani, uscì di prigione, affermò con cinica arroganza che gli italiani avrebbero dovuto fargli un monumento. La risposta più severa gli arrivò da un avvocato : «Lo avrai, camerata Kesselring, non coi sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio, non colla terra dei cimiteri dove i nostri compagni giovinetti riposano con serenità, ma col silenzio dei torturati più duro d’ogni macigno..». Parole nobili, che dovrebbero essere scolpite nelle nostre scuole, e prima ancora nei nostri cuori, assieme al nome del suo Autore, Piero Calamandrei. Era nato a Firenze il 21 aprile 1889, e a 26 anni era già ordinario all’Università di Messina. Era un patriota valoroso: si arruolò volontario e fu promosso sul campo al grado tenente colonnello. Tornò all’Università e nel 1925 firmò, con Benedetto Croce, il manifesto degli intellettuali antifascisti. Il regime lo lasciò in pace: evidentemente non lo considerava un pericoloso sovversivo. In effetti non lo era. La sua opposizione era essenzialmente morale, più ancora che politica, e la materia di sua competenza, la procedura civile, non era di quelle che potessero impensierire i gerarchi.
INSEGNAMENTOCosì Calamandrei potè continuare l’insegnamento e partecipare, con Enrico Redenti e Francesco Carnelutti, alla redazione del codice che ancora oggi, con vari adattamenti, circola nei nostri tribunali. La polizia segreta lo controllava, ma lo lasciava in pace.
Questa tregua finì con l’otto settembre e l’occupazione nazista. Piero Calamandrei fuggì da Firenze, fu colpito da un ordine di cattura della polizia repubblichina, e cominciò la politica attiva: era stato fondatore, con Ferruccio Parri e Ugo la Malfa, del Partito d’Azione. Non si impegnò in imprese militari, ma la sua opera e i suoi insegnamenti furono fonte ineguagliabile di ispirazione di virtù civili. Per questi meriti, fu eletto all’Assemblea Costituente: i suoi interventi costituirono un monumento di saggezza giuridica, di rigore etico, di lungimiranza politica, e di pungente ironia.
Aveva della Resistenza un culto quasi sacrale, ma non ne faceva un feticcio inviolabile. Auspicava che la Costituzione non costituisse un compromesso politico contingente, ma l’eredità di chi era caduto per la Patria, anche per la causa sbagliata: «Di un popolo di morti – disse – di quei morti che noi conosciamo a uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e nei patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nella sabbie africane, nei mari e nei deserti». E della Costituzione, da grande giurista, vide subito i difetti e i limiti, denunciandone la «genericità, l’oscurità e i sottintesi».
INTERVENTONel suo memorabile intervento del 4 Marzo 1947 ne criticò il connotato retorico e pomposo: «Si è cercato di mascherare il vuoto con frasi messe per figura, con precetti morali, definizioni, programmi, propositi, velleità, manifesti elettorali, magari sermoni, che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma norma giuridiche non sono». Ironizzò sulla formula vuota della «Repubblica fondata sul lavoro», e sull’ambiguità della tutela della proprietà privata, «che è libera, ma deve avere una funzione sociale». Attaccò l’inclusione dei Patti Lateranensi, e il principio che lo Stato e la Chiesa sono, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Val la pena di leggerlo integralmente: «In questa Costituzione chi parla in prima persona? È lo Stato Italiano?. È un monologo o un dialogo? C’è una persona che parla, o sono due interlocutori? Si capisce che lo Stato riconosca la sovranità della Chiesa. Ma non si capisce che la Chiesa riconosca la sovranità dello Stato, che è il presupposto di questa Costituzione».
PAROLESono parole forti, che rievocano quelle di Benedetto Croce pronunciate quasi vent’anni prima al momento dell’accordo tra Mussolini e il Vaticano: «Accanto a persone per le quali Parigi val bene una messa, ve ne sono altre per cui un messa conta più di Parigi, perché è questione di coscienza». Una coscienza laica e rigorosa, che entrambi difendevano contro ogni ingerenza confessionale. L’Assemblea applaudì Calamandrei giurista, ma compatì il politico dilettante. Togliatti, con il pretesto di non turbare la pace religiosa, fece digerire ai suoi mangiapreti i Patti Lateranensi traendone in cambio, dai cattolici, quelle concessioni sul cosiddetto stato sociale che ancora oggi sottomettono l’iniziativa privata a pesanti ipoteche. Ma Calamandrei non si fermò qui. Denunciò i pericoli di un esasperato parlamentarismo e di un governo impotente, sottoposto ai capricci dei partiti, delle correnti e delle maggioranze variabili.
PROFETICOQui fu addirittura profetico: «Mentre vi parlo – disse – so benissimo che anche se arrivassi a convincervi i miei argomenti non varranno, se non corrispondono alle istruzioni del vostro partito. Allora a che giova continuare qui a perdere il tempo nel parlare e nell’ascoltare, quando le persone sono già persuase in anticipo? Se le decisioni son già prese dai partiti, allora si sarebbe desiderato disciplinarli nella Costituzione, regolare la loro vita interna e dar loro una organizzazione democratica». Un’allarmante premonizione di quanto sarebbe avvenuto settant’anni dopo con le elezioni primarie, e ancor di più con le piattaforme dei social network e le partecipazioni improvvisate di minoranze ignote e confuse, svincolate da ogni controllo, metodo e trasparenza. Il discorso di Calamandrei fu accolto, come dicono i verbali, da «Vivissimi generali applausi e moltissime congratulazioni». Ma naturalmente, come lui stesso aveva previsto furono puramente platonici. I padri costituenti seguirono le direttive dei partiti, e questi i diktat delle loro segreterie. Ne uscì una Costituzione che, come gli dei di Omero, toglie con la destra quello che concede con la sinistra, ed ancor oggi è interpretata in senso liberale o socialista, a seconda del vento che tira.
AMBIGUITÀForse è per questa sua misteriosa ambiguità che è stata imprudentemente definita «la più bella del mondo». Piero Calamandrei si sarebbe risentito di una definizione vagamente estetizzante nei confronti di una Carta di cui venerava l’origine, anche se, come un innamorato deluso, ne criticava l’incoerenza. Per sua fortuna, non ebbe nemmeno la possibilità di veder confermati i suoi timori. Morì il 27 settembre 1956. Un mese dopo i carri sovietici avrebbero represso nel sangue la rivolta ungherese con il plauso benedicente di alcuni padri della nostra Costituzione.