La Stampa, 7 settembre 2018
Il ritorno di “Gola Profonda” apre una nuova frattura nella presidenza di Trump
«Strategia del caos»: così, per prima, La Stampa ha caratterizzato la governance politica del presidente americano Donald Trump. Star sempre un passo davanti agli eventi, non accettare nessuna reazione negativa, accusare i critici di tradimento, ripetere i bollettini positivi. Ora però «Fear», paura, nuovo best seller dell’antico reporter del Washington Post Bob Woodward, e l’editoriale anonimo di un membro dell’amministrazione sul New York Times, testimoniano di una sempre più vertiginosa discesa nel maelström.
Woodward, con la tecnica di intervistare dietro le quinte i protagonisti sperimentata con il sodale Carl Bernstein contro il presidente Nixon durante lo scandalo Watergate 1972, descrive un governo dove i legali del presidente ammoniscono «finirà in galera... è un bugiardo matricolato» e corrono a confidarsi con il commissario speciale sul Russiagate Robert Mueller. L’ex consigliere economico Cohn nasconde documenti riservati che non vuol far firmare a Trump, e il presidente, prima si nega a Woodward, poi tenta, invano, di blandirlo, mentre l’ex segretario di Stato Tillerson lo definisce «un imbecille», altri «bamboccio distratto», «ignorante», «bullo».
In un rarissimo editoriale op-ed anonimo del New York Times, il caos narrato da Woodward viene corroborato, in tono tragico, da un ministro, o sottosegretario, la cui identità è nota solo ai dirigenti del giornale. L’autore, o autrice, parla di «Resistenza contro il presidente», considerato incapace di governare senza narcisismi o ripicche, e si cita addirittura il 25° emendamento alla Costituzione, che permette di rimuovere il capo del governo per incapacità, come si pensò per il presidente Wilson nel 1919, dopo un ictus, per Nixon alcolista 1974 (quando i codici nucleari vennero affidati al segretario di Stato Kissinger) o Reagan con i primi sintomi di Alzheimer 1987.
«Gola profonda», la fonte segreta delle rivelazioni sul Watergate, venne alla luce solo nel 2005, 31 anni dopo le dimissioni di Nixon, con il volto di Mark Felt, agente Fbi. Da ieri impazza negli Usa la caccia a Gola profonda II, l’autore del commento che parla di «Resistenza» alla Casa Bianca, in stile Quinta Colonna nella guerra di Spagna. Il vicepresidente Pence e il segretario di Stato Pompeo negano di essere coinvolti, qualcuno parla del depresso capo di gabinetto Kelly, altri del solitario ministro della Difesa Mattis, la tv Cnn scherza sulla First Lady Melania o sulla figlia Ivanka Trump e il marito Kushner.
Poco importa, come nulla importava chi fosse il «vero» Gola profonda: conta la politica, conta la realtà. Trump, che si autodefinisce «l’Hemingway di Twitter», è certo di sopravvivere al caos da presidente, come a New York faceva da businessman con la bancarotta. Parla di «tradimento», si arrocca sulla base repubblicana che, finora, gli rimane fedele, depreca lo «Stato profondo», la burocrazia ostile. Ma le memorie di «Paura» e la voce afflitta del collaboratore anonimo, confermano che ogni presunta lettura «razionale» degli analisti è destinata a esser confusa dalla strategia del caos, vedi summit atomico con il dittatore coreano Kim Jong-un, precocemente giudicato «storico successo» e invece senza esiti. Trump non ha contro una Gola profonda, come Nixon, ma dozzine, attive fin dentro lo Studio Ovale. Se alle elezioni di Midterm, a novembre, i democratici conquistassero la maggioranza alla Camera la «Resistenza» repubblicana si mobiliterà e il presidente dovrà affrontare la guerra civile nel partito, magari con uno sfidante alle primarie 2020.