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 2018  settembre 06 Giovedì calendario

Qualche anno fa mi si è suicidata in testa una vecchina. Non proprio in testa, altrimenti non sarei qui a raccontarlo; diciamo sulla nuca, più o meno

Qualche anno fa mi si è suicidata in testa una vecchina. Non proprio in testa, altrimenti non sarei qui a raccontarlo; diciamo sulla nuca, più o meno. Nel senso che la vecchina, che aveva deciso di buttarsi dal terzo piano proprio mentre in strada passavo io, mi ha colpito col tacco dello zoccolo un istante prima di schiantarsi sul selciato. Se la mia camminata fosse stata appena più rapida, se fossi arrivato un attimo prima in quel metro quadro, la vecchina suicida mi avrebbe preso in pieno, spezzandomi l’osso del collo (le vecchine sono gracili ed evanescenti ma un volo di tre piani le trasforma in macigni).
La poverina, impazzita perché i nipoti volevano vendere la casa in cui viveva, aveva deciso di esternare il suo spleen immobiliare gettandosi dal balcone.
Mentre cadeva non ha urlato, i suoi ultimi istanti di vita li ha percorsi in assoluto silenzio, e non c’è stato neppure un sibilo che denunciasse l’arrivo di quel meteorite – o magari c’è stato e io non l’ho sentito: ho solo sentito (ma forse è un’impressione costruita a posteriori) come se a un tratto l’aria intorno a me si restringesse, anzi, si accorciasse; poi il dolore della gran botta sul cranio e quello del selciato che mi arrivava in faccia. Quell’esperienza non mi ha lasciato nessun trauma particolare – o meglio, non ha aggiunto traumi a quelli già in vigore. Ma da allora mi capita spesso, in qualunque situazione mi trovi – a cena, in macchina, a letto –, di dover alzare gli occhi all’improvviso, come se temessi l’arrivo di qualche sgradita sorpresa. All’inizio era un tic fastidioso, benché rarefatto: ogni cinque o sei ore, ecco l’istinto irrefrenabile di guardare in su per accertarmi che lo spazio sopra di me fosse disabitato e benigno.
Poi, però, quel bisogno di guardare in aria è diventato qualcosa di diverso, un impulso fulmineo che ormai non ha più nulla a che fare con il pericolo, con il timore, con la mia incolumità, ed è invece l’esercizio di una vera e propria modalità di visione, involontaria e rapsodica ma molto precisa. È quella che chiamo “visione bambina”, e accomuna i pochi fortunati che, per i postumi di una vecchina suicida o altre peripezie della sorte, riescano a goderne anche da adulti.
Come si sa, i bambini osservano tutto dal basso, per necessità di natura e statura; un basso che di solito provano a ridurre alzandosi in punta di piedi, ma che comunque li costringe a guardare ogni cosa da sotto in su, come se per loro il mondo intero fosse fatto di cielo (dev’essere per questo che i piccoli sembrano sempre in viaggio da tutto). Ecco, quando da adulto ti scatta la visione bambina, in quei pochi istanti di lucidità provocati dal tic scopri dettagli cruciali che di solito ti sfuggono. Guardando il mondo come se tu fossi gnomo e lui gigante, vedi cose che fin lì erano in ombra per troppo sole, riconosci lineamenti tenuti all’oscuro per timidezza, vuoti d’anima che potresti riempire; o magari riesci a leggere le foglie come se fossero palmi di una mano, capisci che l’aria che ti stringeva quel giorno non era il pericolo bensì un amore lontano, un abbraccio che voleva raggiungerti e ti ha trattenuto per l’istante che ti ha salvato.
Attenzione, non sto parlando di trascendenze new age o di mistica del fanciullino o di svenevolezze buoniste: il dono della vecchina implica un sano ed egoistico pragmatismo dell’esistere, quindi non è solo rose e fiori, mette in luce tanto la tenerezza quanto la crudeltà – tutte cose che tornano utili a titolo di vita.
Se osservi la realtà in modalità bambina, infatti, può anche capitarti di individuare finalmente il punto dove fare più male a chi cerca di farti male; o di vedere distintamente l’alone di quelli che ti considerano solo come un contenitore di sé, un pratico porta-sé da viaggio; o di capire una volta per tutte chi ti ricordi quando ti vedi allo specchio: qualcuno che ti manca da pazzi, cui ormai somigli per nostalgia.
Oggi che a guardare il cielo sono rimaste solo le parabole di Sky, la capacità di alzare gli occhi è una specie di superpotere, anche se in realtà guardando dal basso ti percepisci come una figura minore, un te stesso d’appendice, che però ha imparato una lingua agile e profonda che rende più facile capire la vita.
Ma è una padronanza che sei destinato a perdere quasi subito per forza d’inerzia (ossimoro sublime e tragico), perché la natura di adulto è irrefrenabile: dopo qualche minuto di visione bambina, tutto torna di colpo come prima – non resisti alla tentazione di guardare il mondo dall’alto in basso, ridiventi miope.
Fino alla prossima volta che sentirai l’inspiegabile tentazione di alzarti in punta di piedi.