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 2018  settembre 06 Giovedì calendario

Vodka e machete, la mala educación delle gang di Milano

Milano, stazione di Villapizzone, 11 luglio 2015, interno treno, telecamera di sorveglianza. Nel frame è visibile un avambraccio attaccato al resto del corpo soltanto da un lembo di pelle. Sulla banchina, un lago di sangue. L’uomo a terra si chiama Carlo Di Napoli, di professione capotreno. Chiede di verificare il biglietto a un gruppo di ragazzi e, in risposta, riceve un colpo di machete.
Milano, via Castelbarco, 3 luglio 2016. Replay. Alcuni passeggeri prestano i primi soccorsi ad Albert Dreni, cittadino albanese di 18 anni appena. Quattro coltellate ricevute in pieno torace. Albert aveva difeso un amico aggredito da altri giovani passeggeri. Morirà una settimana dopo.
Un terribile ferimento e uno spietato omicidio. In comune, oltre alla matrice degli autori del delitto, c’è soprattutto la totale insensatezza delle aggressioni. Carlo Di Napoli e Albert Dreni sono vittime delle gang di latinos milanesi: giovani, spesso giovanissimi, devoti alla violenza. Poco denaro, molto alcool e un machete come simbolo identitario. Sono i sodali delle pandillas sudamericane, perfette riproduzioni delle bande nate nelle metropoli sudamericane e statunitensi. Tra il 2006 e il 2016, con uno/due episodi gravi come omicidi o accoltellamenti, le quattro/cinque principali pandillas – prima di essere fortemente indebolite dalle indagini della Squadra Mobile di Milano e della magistratura – hanno terrorizzato Milano, come mostra Barrio Milano, il documentario scritto dal giornalista Lirio Abbate in onda su Sky Atlantic il 9 e il 16 settembre per il ciclo “Il racconto del reale”.
Tutto iniziò al Corvetto, quando uccisero il “Boricua”. David Boricua è morto la mattina del 7 giugno 2009, ma i fratelli, gli hermanitos come si chiamano tra loro, si erano già fatti notare cinque anni prima, quando è arrivata la violenza come affermazione. Per gli investigatori non è criminalità, e non è nemmeno criminalità organizzata. Hanno coltelli al posto delle pistole, e colli rotti di bottiglia come fendenti, per tagliare glutei e addomi. Ecuadoregni, peruviani, salvadoregni: sono giovani pronti a uccidere, e morire, per proteggere un metro d’asfalto, per difendere il loro parco. Sono i ribelli di seconda generazione.
Un esercito di centinaia di ragazzi – molti minorenni, la maggior parte non arriva ai 30 anni – divisi in una decina di bande e sottobande che, come nei quartieri ispanici di Chicago, New York e Los Angeles, si sono divise Milano. Neta, Barrio 18, Latin Kings (LK), MS13 o Mara Salvatrucha: questi sono i nomi dei gruppi principali. Quindici morti in dieci anni. Una violenza consumata tra fiumi di birra e shaboo, a colpi di hip hop.
Una violenza che in molti potrebbero definire di poco conto, se si pensa alle pandillas sudamericane. O se si pensa a Napoli, dove, tra 2016 e 2017, solo nella Paranza dei bimbi – lo scontro tra babyboss che si sono spartiti il centro storico – sono morti 60 ragazzi.
C’è chi si riconosce nella pandilla, chi nella Nacion. In una pandilla ognuno fa ciò che vuole, invece “nella Nazione – come racconta Santiago – siamo tutti uniti, tutti lottiamo per le stesse cause: se dobbiamo soffrire soffriamo tutti, se dobbiamo gioire gioiamo tutti. Noi abbiamo la nostra Bibbia, le nostre leggi. E se i nostri genitori hanno dovuto lottare per lavorare, noi dobbiamo lottare per vivere”.
Secondo don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile di Milano che a lungo ha lavorato con le bande di giovani di provenienza sudamericana, “attraverso la violenza questi ragazzi esprimono la loro voglia di riscatto, di affermazione, prima di tutto rispetto ai genitori”.
Pensiamo siano integrati perché frequentano le nostre case, curano i nostri anziani, ma agli occhi dei loro figli, nati e cresciuti qui, sono solo condannati a essere degli schiavi. “E i ragazzi, compressi tra la vita dei loro coetanei e quelle dei loro genitori, non lo accettano”.
Nella banda trovano una famiglia, quei padri che spesso sono rimasti nei Paesi d’origine e le madri che si spaccano la schiena tutto il giorno, tutta la notte. E la violenza, che può esplodere improvvisamente, risponde prima di tutto a una mancata integrazione.
Luca Queirolo Palmas, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università di Genova, tra i massimi esperti delle gang di giovani latinos in Italia, invita a rileggere il fenomeno “andando oltre il mainstream criminologico e sociologico, secondo cui queste esperienze sarebbero riconducibili a forme di devianza. La prospettiva alternativa con cui guardare alle gang dei latinos è composta da tre lenti: resistenza alla subalternità, mutuo aiuto e riconoscimento culturale”.
I figli dei migranti arrivati in massa con il ricongiungimento, se non direttamente nati in Italia, si reinventano in quanto latinos.
Diventano hermanitos. E si riconoscono con un saluto, con i tatuaggi, per il colore di un cappellino, di una bandana o di una collanina. O nell’“alzar corona” come dicono loro: “King-questa è la vera Nazione. Nessuno potrà dividerci, ricordartevelo”.