Un nuovo capitolo della sua biografia immaginaria iniziata con È più facile per un cammello, proseguita con Attrici
e Un castello in Italia. Stavolta ha infilato ventuno personaggi nella vera villa di famiglia in Costa Azzurra. La protagonista affronta la stesura del nuovo copione e contemporaneamente l’abbandono da parte dell’amato.
Cosa rappresenta per lei il film?
«Il mio sguardo sul tempo che passa, sul legame con la mia infanzia. Ho iniziato il mio racconto da attrice, poi a 35 anni ho scoperto che potevo farlo anche scrivendo i film».
Il titolo è preso da una commedia di Gorkij.
«Un modo per rendergli onore. E in fondo la sfida è mettere in scena un punto di vista sociale alla Gorkij o Cechov: ci sono i proprietari ma anche i dipendenti, rapporti tra classi sociali diverse. Compresa la difficoltà di una relazione amorosa tra persone di estrazione lontana».
Quanto la vita sul set cambia la narrazione?
«Ho vissuto certe scene in modo sorprendente. Ma non ho rivelazioni terapeutiche. Non giro film per guarirmi, ma per cercare di capire qualcosa della vita, di rivelare qualcosa a me stessa e spero agli altri. Attraverso la finzione si può toccare più facilmente la verità: piccole cose, s’intende, non ho la presunzione di spiegare i grandi eventi della vita».
Per esempio?
«Il trauma di una persona che si fa lasciare. Il trauma del mio personaggio contamina tutti gli altri: questo sentirsi privata dell’amore contamina la vecchia zia, la madre, i dipendenti come una malattia. L’ho scoperto al montaggio e, in fondo, mi sembra che questo sia il film».
Nel film compare la sua figlia adottiva di origine africana. La preoccupa il rifiuto della diversità?
«Non so fare discorsi politici, quando provo escono cose controproducenti. Divento stupida, forse perché è qualcosa a cui non mi sento legittimata.
Racconto quello che penso attraverso la mia vita e i miei sentimenti. So parlare solo del mio lavoro, con umiltà e spero con onestà. Nel film c’è questo personaggio che viene da un altrove e guarda questo mondo.
La bimba è l’unico personaggio adulto, con una serietà e dignità che nessun altro ha. Da mamma so che mia figlia è stupenda, ma non mi aspettavo questa sua potenza sullo schermo: è insolente, ha lo sguardo intelligente, privo di nevrosi. Il film è il racconto di questa bimba».
Sua figlia è con lei alla Mostra?
«Sì. In famiglia abbiamo ragionato a lungo prima di farle fare il film.
Mia madre era un poco contraria.
Non avrei potuto sostituirla con un’attrice vera, sarebbe stata gelosa. Ma penso che il cinema sia pericoloso per i bambini».
Valeria Golino interpreta sua sorella Carla. Insieme cantate "Ma che freddo fa".
«Valeria è una grande attrice, che sento familiare. Avevo proposto a mia sorella di fare i provini, ma lei non ne aveva voglia. E invece mi serviva qualcuno capace di fondersi con la mia famiglia: Valeria».
Scamarcio è il grande amore che la abbandona.
«Ho voluto distanziare i film dalla mia vita, per non elaborare il rapporto in modo troppo personale. E così ho scelto un attore italiano, un personaggio che si vede poco ma è importante. Un uomo indimenticabile e con un carisma tale che il pubblico oggettivamente pensa; se ti lascia uno così cosa fai?».
È terribile quando lui parte in treno e lei lo aggredisce a pugni e sputi….
«C’è qualcosa di selvaggio nel mio personaggio, malgrado la buona educazione. Qualcosa anche di sgraziato, scorretto, insolente.
Perché quei momenti sono selvaggi. Ti riportano a traumi antichi, hanno a che vedere con l’abbandono dell’infanzia».
Il personaggio di lui evoca il suo ex compagno Louis Garrel…
«Pazienza se qualcuno si riconosce, mentre magari è stato solo una piccola fonte di ispirazione per personaggi poi ripensati e modificati. E comunque ognuno è libero di vivere il film come preferisce. Io ho la coscienza a posto».
Quale ricordo si porta via dal set?
«La scena in cui ho costretto mia madre a baciare l’amico di famiglia, Bruno Raffaelli. Gliel’ho anche fatta ripetere».
In una scena si presenta davanti alla commissione che dovrebbe finanziare il suo lavoro. Ne fa parte il vero Wiseman che l’accusa di girare sempre lo stesso film. Ci vuole un certo coraggio...
«Lo ringrazio, la soggezione che provo nei suoi confronti mi ha aiutato a star male e a vergognarmi. Prendersi in giro è anche un atto di furbizia: dici il peggio di te stessa così eviti che lo facciano gli altri».
La Mostra è criticata per via di una sola regista in concorso.
«Ma basta con le quote. Certo, avrei preferito essere in concorso — anche se non amo la gara — c’è una elettricità maggiore. Le quote possono avere senso in altri ambiti. Ma non mi piacerebbe essere in concorso perché donna.
Barbera ha scelto per noi.
Deciderà il pubblico se ha avuto ragione. O forse ce ne freghiamo».