Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 06 Giovedì calendario

Morozov: «Città, riprendetevi i dati lasciati in Rete»

Evgeny Morozov non è uno che si accontenta. Far pagare le tasse a Apple. Spezzare il monopolio di Google. Pretendere da Facebook una qualche retribuzione per l’uso dei nostri dati. Sono tutti correttivi, mentre qui serve una rivoluzione culturale. Che, alla faccia di chi ripete il grande alibi che contro aziende così grandi l’unica è una risposta transnazionale, può invece partire proprio dalle città. Non necessariamente smart, la cui mitologia provvede a decostruire in un libro ( Ripensare la smart city, Codice) appena scritto con la moglie Francesca Bria, chief technology and innovation officer della municipalità di Barcellona. Di questo e di altro parlerà al Festival della Comunicazione di Camogli (da oggi a domenica).
Partiamo da due categorie su cui ragiona da tempo, relative ai dati: estrattivismo e distribuzionismo. Che cosa significano?
«Sono due dinamiche opposte. La prima è la tendenza delle aziende digitali, le cosiddette Big Tech, di estrarre sempre più dati dalle nostre attività online. La seconda è la reazione dei tanti preoccupati da questo accaparramento che chiedono una ridistribuzione verso i veri titolari di quei dati, ovvero tutti noi».
Nel campo distribuzionista però distingue tra un approccio di destra e uno di sinistra: in cosa differiscono?
«Quello di destra si muove all’interno della cornice liberale classica, a partire dal diritto di proprietà. Big Tech guadagnerebbe meno perché una parte degli utili andrebbe agli utenti. È una soluzione che, pur correggendolo, sancisce lo status quo. Da sinistra invece si è ipotizzato che il possesso dei dati potrebbe essere attribuito a una specie di trust pubblico. È un’idea piaciuta al Labour britannico e anche la segretaria della tedesca Spd ha sostenuto che le aziende dovrebbero essere costrette a condividere i dati con il resto della società, in forme gestite dal pubblico. Sono ipotesi che dimostrano una maggiore immaginazione istituzionale».
Quei dati, ha scritto, potrebbero essere anche custoditi dalle città stesse.
Rispetto ai tanti che sostengono che neppure le nazioni possono niente di fronte a questi moloch globali sembra avere grande fiducia nel livello locale…
«La risposta è complessa. Big Tech non sta fuori dalla storia: è la conseguenza, non la causa, della deriva neoliberista degli ultimi 40 anni. Senza la globalizzazione dei servizi non sarebbero nemmeno potute essere concepite le odierne piattaforme. Senza governi deboli, che hanno rinunciato a politiche industriali, non si sarebbero creati i vuoti che Amazon e Facebook hanno riempito. Al punto in cui siamo giusto Russia e Cina, se parliamo di singoli stati, sono forse in grado di sfidare il predominio statunitense. Se tutto questo è vero, però, lo è anche che non sta scritto da nessuna parte che le città debbano rinunciare ad avere voce in capitolo sui dati generati da chi vive al loro interno. Chi meglio delle municipalità potrebbe avvantaggiarsi dei dati generati dalla mobilità dei loro cittadini?».
Cosa c’è nel termine smart city che la indispettisce?
«L’idea che le città, grazie all’aggiunta di sensori e software, possano attrarre cittadini più intelligenti e quindi soldi più intelligenti è vecchia. Il termine fu originariamente adottato da Ibm e da Cisco come strumento di marketing, per vendere i loro servizi. Oggi, dopo tante promesse che hanno mantenuto poco, è caduto un po’ in disgrazia».
Voi scrivete che caratteristica del neoliberismo è un governo decentralizzato, basato su varie classifiche di affidabilità dei cittadini. Perché il ranking è diventato così importante?
«Nel mito fondativo di Internet c’è stato il culto dell’anonimato. Via via venuto meno quando Facebook ha fornito le credenziali per accedere a una quantità sempre crescente di siti e servizi. Una volta che il navigatore ha avuto un nome e un cognome è stato possibile valutare la sua reputazione. E la reputazione, quantificata attraverso il ranking, ha sostituito i suoi diritti. D’altronde diritti digitali è sempre stata un’espressione fuorviante, dal momento che si tratta di permessi, concessioni d’uso. Ogni azienda ha sempre sognato di poter conoscere in anticipo quali fossero i clienti indesiderabili, per tenerli alla larga.
Ieri eBay, oggi Uber e Airbnb hanno realizzato quel sogno».
Non potevano esserci soluzioni migliori?
«Senz’altro, perché questa burocrazia algoritmica, il fatto che la pagella ce la dia il computer, è uno dei rari casi in cui sono d’accordo con quanti sostengono che il rapporto tra noi e Big Tech è di tipo neofeudale perché nulla possiamo contro quelle decisioni.
La mia controproposta è sostituire questi ranking privati con una valutazione molto più limitata, in mani pubbliche, che certifichi solo l’identità dei navigatori».
In Cina il sistema di valutazione ha preso le sembianze di un "sistema di crediti sociali" che dà punteggi non solo al consumatore, ma anche al cittadino. La preoccupa più la dimensione politica o quella economica del ranking?
«Queste modifiche sociali partono come economiche ma hanno ricadute politiche. È per questo che temo di più per i cambiamenti indotti dalla tecnologia nello spingere l’occidente verso il modello Singapore di quanto non tema che la Cina diventi la Corea del Nord. È la legge dei ritorni decrescenti a dirlo. Noi abbiamo più da perdere».