la Repubblica, 6 settembre 2018
Dalla Via della Seta alla tavola, il lungo viaggio della frutta
Altro che chilometri zero. La pesca o il melone che chiudono un pasto in dolcezza vengono da molto lontano. Hanno attraversato le catene montuose più alte del mondo in carovane di cavalli o cammelli. Hanno trascorso le notti in città sfavillanti come Samarcanda o in caravanserragli maleodoranti. Si sono incrociati con le specie locali lungo un percorso che da quasi 5mila anni collega Asia ed Europa.
Perché la Via della Seta ha preso il suo nome dalle merci preziose, ma non sarebbe nemmeno sbagliato chiamarla la Via della Frutta, per la quantità di specie e varietà che hanno colonizzato l’Europa partendo dall’Oriente. Alla rete commerciale terrestre che ha forgiato la nostra cucina non meno della rotta marittima dalle Americhe, il Max Planck Institute tedesco, con l’Università di Washington e l’Istituto Archeologico di Tashkent hanno dedicato il progetto “Frutti della Via della Seta”, appena sfociato in una pubblicazione su Plos One e in un libro – ne è autore Robert Spengler – che uscirà la prossima primavera: Fruits from the Sands.
«Le montagne dell’Asia interna sono molto ricche dal punto di vista ecologico» spiega Spengler, direttore del laboratorio di paleobotanica del Max Planck. «Da lì si sono irradiate molte delle piante coltivate negli ultimi 5mila anni, che oggi arricchiscono di ingredienti le cucine europee». Lo studio si basa sullo scavo di una discarica vicina al mercato centrale di Tashbulak, fra i monti dell’Uzbekistan orientale. A 2.100 metri di quota nessuno dei semi carbonizzati spuntati dalla terra, risalenti a un migliaio di anni fa, poteva essere cresciuto in loco.
Uva, meloni, grano, orzo, piselli, ceci, albicocche, pesche, mele, capperi, ciliegie, pistacchi e noci vi erano stati portati dai mercanti, coltivati o raccolti da piante selvatiche nelle valli sottostanti dove il clima è più mite. La frutta secca veniva usata anche come moneta. Le mele, a seconda della varietà, erano originarie della Cina o del Kazakhistan: Alma Ata, la capitale, vuol dire proprio “padre della mela”. Percorrendo per millenni la Via della Seta in entrambe le direzioni, questo frutto ha scambiato i suoi pollini con le varietà locali, sfociando nelle 7.500 cultivar esistenti oggi.
Da acida, piccola e soffice, si è trasformata in un frutto dolce e croccante. Le “pesche d’oro di Samarcanda” erano grandi “come uova di anatra” e nel VII secolo venivano regalate dagli abitanti della città all’imperatore cinese Taizong. «Le pesche erano frutti riservati alle persone di prestigio» conferma Giulia Càneva, che insegna Botanica all’Università Roma Tre, ed è anche esperta di raffigurazioni di frutti nella storia dell’arte. «Arrivano dalla Cina e dal Giappone. Oltre alla polpa, gli asiatici ne ammiravano anche le splendide fioriture. Il nome che gli davano fa capire quale fosse la loro importanza: Tao». In Italia le pesche sono arrivate in età augustea passando per l’Iran. «Ci sono raffigurazioni sia sull’Ara Pacis che a Pompei e menzioni nel ricettario di Apicio». I meloni sono uno dei frutti che risaltano di più nella Loggia di Amore e Psiche a Roma, dipinta da Raffaello e dalla sua scuola. «Come molte specie diffuse in aree ampie – prosegue Caneva – hanno iniziato a essere coltivati in due zone distinte: India e Africa. Non sappiamo bene quale strada abbiano seguito, ma li ritroviamo raffigurati a Ercolano».