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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Arnaldo Pomodoro

Arnaldo Pomodoro, nato a Morciano di Romagna (all’epoca in provincia di Forlì-Cesena, oggi di Rimini) il 23 giugno 1926 (92 anni). Scultore. Orafo. «Il mio lavoro è togliere peso alla materia e trovare la semplicità» • «Antica famiglia di origine pugliese: non per niente il nome non vuol dire “pomodoro” nel senso di tomato, bensì “pomo d’oro”, cioè scettro d’oro» (a Mimmo Di Marzio). «I Pomodoro provengono dalla Puglia, mentre il ramo materno della famiglia è di Orciano, vicino a Pesaro. […] Una famiglia quindi per metà marchigiana, per metà meridionale, che sono poi le mie due radici principali» (ad Anna Crespi). «Famiglia piccolo borghese. I parenti di papà erano avvocati dello Stato, da parte di mamma erano bravi artigiani: mio nonno era uno straordinario calzolaio» (a Paolo Di Stefano). «Mia nonna era molto religiosa. Mia madre un po’ meno. Il suo credo era il socialismo. […] Sono cresciuto così, in una casa dove sopra il caminetto campeggiavano le immagini di Garibaldi, Mazzini e Cavour. E, sopra a tutti, il Crocifisso» (a Luigi Amicone) • «Nella nostra famiglia siamo tre fratelli: Giò, artista e scultore come me, scomparso nel 2002, e mia sorella Teresa, la più giovane, che mi ha sempre sostenuto in tutte le situazioni con intelligenza e sensibilità». Sono sue cugine le sorelle gemelle Livia Pomodoro, ex presidente del Tribunale di Milano, e Teresa Pomodoro (1940-2008), attrice e regista teatrale • «Le prime immagini che ricordo sono le rocce e le fenditure aspre e misteriose, tipiche del Montefeltro, e poi le rocche medievali, come quella di San Leo con le mura sospese a picco, che non si capisce dove finisca la pietra e incominci la costruzione» (a Simone Zeni). «Da bambino […] andavo a giocare sulle rive del fiume Conca, e con la sabbia mescolata all’argilla disegnavo e costruivo forme fantastiche. Questo “scavare” dentro la terra, immaginare paesaggi, è stata forse l’origine della mia opera. […] I miei pochi giocattoli li smontavo: ricordo che i miei genitori si arrabbiavano molto, ma io volevo scoprire gli ingranaggi, i meccanismi interni, che mi affascinavano e sviluppavano la mia immaginazione». «Possedevamo della terra che dava da mangiare a tutti e permise a mio padre di non fare mai nulla. Era un uomo ozioso. Detestava ogni forma di lavoro. Lo zio, presidente di Corte di cassazione a Roma, parlava di lui con disgusto. […] L’amavo, ma l’avrei ucciso. […] Era un sognatore. Il suo lato migliore. Nonostante non avessimo un buon rapporto, quando capì i miei tormenti, legati a cosa avrei dovuto fare della mia vita, mi disse con grande semplicità: non fare in modo che distruggano i tuoi sogni» (ad Antonio Gnoli). «Avrei voluto fare l’architetto, ma mio padre si ammalò e così decisi di accorciare gli studi e diventare geometra per assicurarmi subito uno stipendio» (a Sandro Parmiggiani). «Cominciai a lavorare al Genio civile in tempi in cui l’Italia, dopo la guerra, andava ricostruita. Lì, a Pesaro, anche frequentando gli amici dell’Istituto d’arte, capii che i miei interessi si spostavano sull’arte. Andavo spesso a curiosare in biblioteca. Trovai un libretto su Paul Klee e ne fui impressionato: cominciai a disegnare rielaborando le sue immagini. Proprio da Klee ho forse tratto il mio "segno" stilistico». «La mia è stata un’educazione da assoluto autodidatta. Ma […] devo a un caso fortunato che mi capitò in una stradina di Pesaro l’inizio del mio percorso artistico: quando sono entrato nella bottega di un vecchio orafo e ho scoperto l’osso di seppia. Sono nati così i gioielli e i primi bassorilievi con elementi di argento o piombo montati su fondi di velluto, iuta, cemento. L’osso di seppia veniva usato a “sandwich”, cioè con un calco interno effettuato su un prototipo, di norma ricavato con scalpelli e lime da un blocchetto di metallo» (ad Ada Masoero). «Al Genio civile avevo scoperto che non m’interessavano le cubature e le travature. A me piaceva solo l’abito esterno delle case. Così dalle costruzioni passai alle scenografie. Pesaro è la città del Festival nazionale d’arte drammatica. Fu la drammaturgia a offrirmi lo spunto: una casa a destra, una chiesa a sinistra, una piazza qui, una torre là… Ora potevo inserire le mie costruzioni dentro un paesaggio, pensare a una città ideale alla maniera del Bramante, con un centro che si sviluppa in forma stellare. […] Nel 1953 ero venuto a Milano per la mostra di Pablo Picasso. Ne rimasi affascinato. Non era una città: era un cantiere aperto, un’esplosione di vitalità. Presentai domanda al Genio civile per essere trasferito nel capoluogo lombardo. Volevo vivere d’arte, ma non osavo lasciare l’impiego. Nel tempo libero, con mio fratello Giò, liquefacevo il piombo su un fornellino ad alcol e ottenevo piccoli rilievi inseriti dentro gli ossi di seppia. Passammo all’argento e all’oro. Diventarono gioielli. Nel 1954 chiusi col Genio» (a Stefano Lorenzetto). «Ho incontrato Lucio Fontana nel 1954 a Milano, dove mi ero appena trasferito da Pesaro: fu lui a introdurmi nell’ambiente artistico milanese. […] Per me è stato come un padre, che mi ha stimolato, incoraggiato, sempre seguito» (a Gaetano Grillo). «Ho iniziato subito a frequentare gli artisti e gli intellettuali che animavano la vita culturale milanese e si ritrovavano al bar Giamaica. Fondamentale l’incontro con Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass e, attraverso di loro, con la cultura americana. […] Il sogno di andare negli Stati Uniti era già dentro di me quando, verso la fine della guerra, aspettavamo che passasse la Quinta Armata americana. Poi diventò un progetto concreto, che ho potuto realizzare nel 1959 grazie a una borsa di studio del ministero degli Esteri. […] L’impatto con lo spazio americano e con l’estrema vitalità che animava in quegli anni l’ambiente artistico è stato enorme. Ma il passaggio decisivo avviene nella saletta di Brancusi al MoMA di New York. È qui che ho una folgorazione: osservando le sculture di Brancusi sento che esse mi danno tanta emozione fino a provocare un desiderio di distruzione e così le immagino come tarlate, corrose; mi viene quindi l’idea di inserire tutti i miei segni all’interno dei solidi della geometria, e cioè dentro un’immagine essenziale e astratta» (ad Anna Crespi). «Con Giò abbiamo condiviso lo studio per un decennio, è cominciata così la nostra "avventura": si discuteva di tutto e si interagiva, abbiamo anche firmato opere insieme. […] Nel ’64 dividemmo gli studi: Giò andò a vivere in Toscana, interrompendo così il nostro sodalizio. Da tempo la nostra ricerca si era differenziata: io avevo già fatto le mie esperienze americane, e dal ’66 avrei cominciato a insegnare a Stanford come artist in residence, poi a Berkeley e al Mills College, per quasi dieci anni». «Quando, nel 1965, tenni la mia prima mostra personale a New York, alla Galleria Marlborough, […] ero molto preoccupato, nonostante avessi da poco ricevuto due importanti riconoscimenti: il Premio della Biennale di San Paolo del Brasile nel ’63 e quello nazionale di Scultura della Biennale di Venezia nel ’64. La mostra fu un successo esplosivo di vendita e di critica, che mi fece quasi paura. La rivista Time mi dedicò un’intera pagina a colori con il titolo “Dissatisfied Aristotle” e il MoMA acquistò la Sfera n. 1. Per gran parte delle opere in mostra furono addirittura prenotati anche gli altri esemplari dell’edizione, che dovevo peraltro ancora fondere». «Dallo University Art Museum di Berkeley è partita nella primavera del 1970 la mia prima mostra di sculture all’aperto, itinerante nei campus e nei musei americani. […] È stata un’esperienza straordinaria che ha fatto conoscere il mio lavoro negli Stati Uniti e ha dato l’avvio a molte altre mostre all’aperto in luoghi di grande importanza e suggestione, in Italia e nel mondo». «La prima idea di scultura viene dagli Ittiti e dai Sumeri dei grandi libri consultati in biblioteca: “Cominciai imitando le tavolette mesopotamiche, i papiri egizi, quella scrittura arcaica e illeggibile. Costruivo gioielli e piccoli rilievi con il piombo, facile da fondere, e talvolta l’argento, utilizzando […] la fusione con l’osso di seppia”» (Paolo Di Stefano). «In quei rilievi già emergevano i motivi della mia ricerca tra segno e materia, ma mancava la tridimensionalità della scultura che entra nello spazio, mancava la possibilità di vedere l’opera tutt’intorno, come esige la scultura. Per questo occorreva il tuttotondo. […] Dapprima ho curvato e modulato la superficie piana, come nei Radar, nelle Successioni, in alcune Colonne del viaggiatore e Tavole della memoria; poi è iniziata la ricerca sui solidi della geometria euclidea – cubi, sfere, cilindri, dischi, coni, piramidi –, sui quali operavo corrosioni, rotture e perforazioni, con l’intento di rompere la forma per metterne in evidenza l’interno misterioso e complesso. Volevo mettere in dubbio il senso di perfezione e la simbologia di ogni forma assoluta. La mia prima scultura volumetrica è la Colonna del viaggiatore, alta cinque metri e fusa in ferro nello stabilimento Italsider di Lovere, realizzata per la mostra ideata da Giovanni Carandente delle "Sculture nella città" che ebbe luogo a Spoleto, in occasione del Festival dei Due Mondi del 1962. Subito dopo sono venute La ruota e Il cubo, poi le prime Sfere (la Sfera n. 1 data 1964). […] Il “salto dimensionale” lo decise […] la commissione per il Padiglione italiano dell’Expo di Montréal del 1967, di cui facevano parte Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e Umberto Eco, quando mi fu chiesto di realizzare una sfera di cinque metri di diametro, poi “fortunatamente” ridotta a tre metri e mezzo, per mancanza dei fondi. Passai giorni di tensione perché temevo che i miei segni, ingigantiti, diventassero troppo “meccanici”. […] La Sfera grande, collocata sul tetto del padiglione italiano a Montréal, fu poi installata definitivamente di fronte alla Farnesina a Roma ed è diventata una sorta di logo del nostro ministero degli Esteri. […] Arrivano le prime commissioni per grandi opere da collocare all’aperto, nelle piazze e negli spazi pubblici: così allora ho potuto pensare a sculture di dimensioni notevoli, sapendo che sarebbero andate a riempire un determinato spazio, e ho realizzato opere imponenti, come se appartenessero a un settore che sta a cavallo tra la scultura e l’architettura. Ho sempre avuto grande curiosità di sapere cosa c’è all’interno della terra e desiderato andare dentro la materia: la costruzione delle mie sculture avviene in un certo senso partendo dall’interno. Io imprimo nell’argilla con le mani e con tanti attrezzi diversi la forma al negativo, lavorando – si potrebbe dire – “dentro l’opera”. L’impronta si trasferisce, attraverso procedure complesse, prima al gesso, poi allo stampo in gomma siliconica, sul quale viene colata la cera, per arrivare infine alla fusione in bronzo. Spesso ho affermato, scherzosamente, che sono una “termite del metallo”» • Nel 1995 ha costituito a Milano la Fondazione Arnaldo Pomodoro: «Desideravo aprire un luogo che non fosse celebrativo del mio lavoro, ma rappresentasse un laboratorio di idee e iniziative per l’arte e la conoscenza e un punto di incontro e partecipazione per la vita culturale della città» • Celibe. «Non ho avuto famiglia: con un padre come il mio, già da ragazzo ero capofamiglia. Oggi i miei figli sono quelli che lavorano con me» • «In bilico tra metafisica e meccanica, tra cosmologia e orologeria, le macchine monumentali di Pomodoro sono anche strani congegni urbanistici ed ecologici. Collocati nel paesetto marchigiano natale hanno un senso biografico, in un vecchio contesto urbano un senso evocativo, in una piazza di città moderna un senso di sintonia, sulla riva del mare un senso d’infinito. Sono sculture piene di valenze aperte, hanno bisogno di siti significativi con cui combinarsi» (Giulio Carlo Argan) • «Per me la massima aspirazione è quella di avere come ambiente per le mie opere l’aperto, la gente, le case, il verde. Sono perciò contento che molte mie sculture siano collocate in importanti piazze del mondo e in luoghi significativi, come il piazzale delle Nazioni Unite a New York, il cortile della Pigna dei Musei Vaticani a Roma o ancora la sede della Casa Editrice Mondadori di Segrate». «Non potrei fare niente di diverso. La mia vita di uomo e la mia vita di scultore sono la stessa cosa». «Ho l’impressione che più avanzo in età e più mi avvicino a diventare "folle". Si gioca, è un bel gioco, come quand’ero ragazzino, con la terra». «Ho cassetti pieni di sogni ancora da realizzare» (a Fiorella Minervino).