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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Renato Pozzetto

Renato Pozzetto, nato a Laveno-Mombello (Varese) il 14 luglio 1940 (78 anni). Attore. Regista. Cantante. Sceneggiatore. «Credo che la mia generazione debba molto ai cortili. Molta della nostra follia proveniva da lì: dalle giornate passate in strada, dalle ginocchia sbucciate» • Ascendenze svizzere per parte di madre, originaria di Malvaglia (Serravalle, Canton Ticino) • «Sono un figlio della guerra. Abitavo nelle case popolari nell’estrema periferia di Milano, ce la bombardarono quando avevo solo due anni. Ci siamo salvati rifugiandoci in cantina. Mio papà era un impiegato di banca, mia mamma una casalinga e avevo tre fratelli. Abbiamo sofferto la fame, imparando a fare i conti con le rinunce. Sfollammo a Gemonio, nel Varesotto, dove incontrai Cochi Ponzoni. […] Facevo gruppo con Cochi e gli altri bimbi di Gemonio. Giravo per il paese con una bici scassata, giocavo a palla, frequentavo l’oratorio. Poi la guerra finì, e a 6 anni tornai a Milano con una famiglia messa k.o. Abbiamo sempre vissuto tra piazzale Corvetto e piazza Abbiategrasso, conoscendo la povertà» (a Renato Pella). «Ero curioso, non stavo mai fermo. Venivo da una famiglia semplice. Ho imparato ad andare in bici senza gomme, solo con i cerchioni, per dare un’idea. Ma non ho sofferto. Anche se i momenti della mia vita che ricordo con maggior piacere sono i giorni in cui mia mamma mi portava all’oratorio, dove giocavo, un panino al salame. Più forte di tutte le altre emozioni che ho avuto è il profumo di quel pane e di un buon salame. […] Mi costruivo i giocattoli, il monopattino, i meccanici mi davano una mano prestandomi la pinza o regalandomi una vite. Facevo le passeggiate in montagna, mi sentivo un eroe, come quando nuotavo in mezzo al lago e i pescatori mi sgridavano perché era pericoloso» (a Marina Cappa). «Andavamo ancora a scuola, Milano era piccola piccola. […] “Noi” eravamo io e Cochi che ci conoscevamo da bambini, più gli amici della compagnia: il Cobianchi, lo Zambelli, il Ciccarelli. […] Coi ragazzi si stava seduti sulle panchine, si giocava a palla, si beveva un bianchino. Si prendeva il tram numero 3 e si andava in centro a guardare le vetrine. Non avevamo niente. Niente, a parte le parole. E con quelle giocavamo. Più che altro avevamo un gergo: andare a mangiare si diceva “al pito”, bere “al trinco”, partire per le ferie “andare al Sant’Anselmo della spesa”. Fare l’amore, che di quei tempi era una parola grossa, era “prendersi il gusto”. E le ragazze “le bastone”, nel senso che ci tenevano sotto schiaffo. Ma l’aspetto più interessante era un certo humour nero. Moriva qualcuno nel quartiere e ci davamo la notizia con un gesto: “Hai presente il Mario dell’edicola? Ciaooo…”. E il cancro era il fantolo: “gli è venuto un fantolo al melone”» (a Egle Santolini). Studi da geometra. «Mi sono diplomato con fatica al Carlo Cattaneo in piazza Vetra. Milano era tutta da ricostruire, era un cantiere a cielo aperto. Ero affascinato dalle gru e dalle costruzioni che riprendevano forma. Ci giravo intorno, ci curiosavo dentro. Per un anno ho pure esercitato da geometra, ma non era la mia strada. Grazie a una legge che dispensava dal servizio militare chi aveva più fratelli che lo avevano fatto, mi sono ritrovato libero e ho iniziato a fare il saltimbanco con Cochi». «“Milano allora era mescolatissima, capitava che noi studenti finissimo alla galleria d’arte notturna “La Muffola” di Velia e Tinin Mantegazza e conoscessimo Lucio Fontana, Piero Manzoni, che poveretto è morto giovane, Luciano Bianciardi, e poi il Dario, Dario Fo: dopo un po’ saltava fuori una chitarra e ci si metteva a cantare. Si andava anche all’Oca d’oro di via Lentasio, qualche volta al Giamaica, dove passava spesso Mariangela Melato, che stava in Montebello: ma io con Mariangela andavo soprattutto a ballare il rock’n’roll in una balera di corso Europa. Con Cochi eravamo appassionati di canti popolari, anarchici e di protesta, come quelli sullo scandalo della Banca romana: ‘S’affondano le mani nelle casse – crac! / Si trovano sacchetti pieni d’oro – crac! / E noi, per governare, come fare? / Rubar, rubar, rubar, sempre rubare!’. […] Gino Negri ci ha notati e ci ha portati a cantare nei circoli di sinistra. Ma anche in piedi nelle sale biliardo, se capitava. Ecco, quei nuovi amici son venuti a trovarci da Gattullo, e il posto gli è piaciuto. Dopo la chiusura la cucina la occupavamo noi, c’era un tizio detto il Diavolo che faceva da mangiare da padreterno”. E poi la passione si è trasformata in lavoro. “È arrivato Jannacci e ha imposto le regole: è stato lui a spiegarci che, se si voleva fare sul serio, bisognava impegnarsi nel lavoro, essere puntuali, non scadere nella volgarità. Ci ha dato coraggio e ci ha aiutati a scrivere le prime canzoni, a cominciare da A me mi piace il mare. Quando è nato il Cab 64 in via Santa Sofia, è stata la svolta cruciale: dagli scherzi con gli amici si è passati all’‘ecco a voi’”». «Jannacci […] dopo un paio d’anni ci presentò a Bongiovanni del Derby, dove abbiamo costituito il Gruppo Motore (perché eravamo pieni di energia), composto da me, Cochi, Jannacci, Andreasi, Toffolo e Lauzi. Il Gruppo Motore dava da mangiare al Derby, anche se Bongiovanni e soprattutto la signora Angela dicevano che eravamo degli incapaci». «Il primo a portarci negli studi della Rai fu Jannacci, che ci coinvolse in un suo show. Poi, nel 1968, Enrico Vaime ci chiamò per Quelli della domenica con Paolo Villaggio. Dovevamo partecipare solo a sei puntate, ma, visto il successo ottenuto, ogni settimana prolungavano il nostro contratto. […] Quelli della domenica […] ci rese popolari». «“Eravamo surreali, ma alla fine si capiva quasi tutto: il numero che ci identificava di più era quello con il poeta e il contadino: io ero ovviamente il contadino che faceva ammattire con la praticità Cochi, poeta etereo e insopportabile nella sua petulanza”. L’estate successiva c’è un disco a suo modo storico, quelle cose assurde e bellissime che si chiamavano La canzone intelligente o La gallina. Quel disco va in classifica e piace a tutti. La tv adesso li cerca e firmano contratti più lunghi. […] L’apoteosi e il massimo del successo risale a sei anni dopo, nel senso che a quel punto i due sono parte integrante del sabato sera in tv, Canzonissima. Significa spettatori a palate, cifre che oggi farebbero gridare al miracolo, anche venti milioni, ed era in fondo una cosa normale. Ma quel sabato sera è anche l’inizio della fine, nel senso della coppia» (Antonio Dipollina). «All’inizio non volevamo incastrarci nel cliché della coppia comica, poi in realtà non ci hanno mai proposto sceneggiature che fossero convincenti per la coppia, mentre separatamente ci sono capitate due occasioni importanti. Renato ha fatto Per amare Ofelia di Mogherini, che ha avuto molto successo, e io più o meno nello stesso periodo ho fatto Cuore di cane di Lattuada, che ha ottenuto molti consensi di critica ma pochi di pubblico. Così per Renato è iniziata una carriera piena di soddisfazioni, mentre io mi sono dedicato al teatro di prosa» (Cochi Ponzoni). «Beppe Viola diceva che, alla proiezione del primo film [Per amare Ofelia – ndr], l’intero bar Gattullo si presentò compatto e ne uscì a pezzi, chiedendosi come fosse possibile, chiedendosi se davvero Renato dovesse infilarsi in una strada così. Dice Renato: “Ma no, Beppe scrisse quelle cose per prendermi un po’ in giro”. Però: “Jannacci ci rimase male, lui sì. Mi fece un lungo discorso, rimasi molto stordito. Non sapevo che fare. Ma poi feci quello che mi sentivo: andai a Roma fuori dal cinema dove proiettavano il film, c’era sempre la coda degli spettatori e decisi che, pazienza, doveva andare così. Enzo aveva le sue ragioni, ma io in pratica me n’ero già andato”. Strade diverse, per venticinque anni, non uno scherzo. I primi tempi, però, qualche fugace compattamento per qualche film (Sturmtruppen). Renato infila un successone comico dietro l’altro al cinema. […] Spiega Renato: “A un certo punto la deriva dei film che mi chiedevano di fare era diventata un po’ forte”. Significa, spiega, che, sì, i film più ambiziosi girati, come Da grande, sono stati quelli che hanno incassato di meno, e allora, d’accordo, bisogna fare la commedia, ma a un certo punto uno diventa quasi anziano, e i registi delle commediacce chiedono sempre di più: “Quando si arriva a dover girare scene con il pannolone frignando e fingendo arrapamenti, allora è ora di chiudere”. La strada, alla fine, torna una per entrambi, come un ricompattamento naturale dopo le tortuosità della vita. Nel 2000 arriva una fiction tv che, in teoria, è un evento: Nebbia in Val Padana. Parte forte, la curiosità è tanta, poi l’audience cala via via. Dice Renato: “Una storia impossibile. Firmiamo il contratto e dopo, solo dopo, scopriamo che il regista è un altro e non è quello scelto da noi, che tre attori sono piombati da chissà dove, anzi lo sapevamo benissimo da dove. È andata così”. Tanto è vero che tornano in teatro. Debutto ad Ascoli, nel 2001. Fanno i vecchi numeri, li riadattano, ne scrivono nuovi» (Dipollina). Da allora i due hanno ripreso a collaborare, comparendo nuovamente insieme in televisione, soprattutto con Zelig Circus (Canale 5, 2005) e Stiamo lavorando per noi (Rai Due, 2007), e a teatro, con Nuotando con le lacrime agli occhi (2007), Una coppia infedele (2008), Finché c’è la salute (2010) e Quelli del cabaret (2012). Parallelamente ciascuno dei due ha portato avanti anche progetti individuali: nel caso di Pozzetto, tra gli altri, la miniserie televisiva Casa e bottega (Rai Uno, 2013), la partecipazione al film di Alessandro Genovesi Ma che bella sorpresa (2015) e lo spettacolo teatrale Siccome l’altro è impegnato (2016) • Autore di una quindicina di sceneggiature per vari registi, tra cui Salvatore Samperi (Sturmtruppen, 1976), Nanni Loy (Testa o croce, 1982) e Steno (Mani di fata, 1983). Qualche esperienza – stroncata dalla critica – anche come regista, cominciando con uno dei tre episodi del film collettivo Io tigro, tu tigri, egli tigra (1978) per finire con Un amore su misura (2007) • Da alcuni anni Pozzetto gestisce, insieme alla famiglia, la Locanda Pozzetto (già Locanda Montecristo), allestita insieme al fratello Achille ristrutturando una vecchia cascina della natia Laveno-Mombello, sulle rive del Lago Maggiore • Vedovo, due figli. «Tentazioni? Hai voglia, ma non le ho mai perseguite. Io e mia moglie siamo stati sposati quarant’anni, è morta nel 2009 e il vuoto non si è mai riempito. Ci siamo conosciuti che avevamo 14 anni e non ci siamo più lasciati. È stato difficile, lo è ancora oggi» • «Politicamente l’hanno sempre etichettata come vicino alla Lega. “Vicino… di casa di Umberto Bossi. Lui abita a Gemonio, il paese dove poi hanno vissuto i miei genitori, scomparsi a 97 anni. Quando andavo a trovarli incontravo spesso Bossi dal tabaccaio a comprare i sigari. Anni fa su un aereo mi battezzò come un suo compaesano. La Lega mi fa simpatia come se fosse una storia di casa, e ora è ai grandi fasti”» (Pella) • «“Noi ci siamo sempre ispirati alla vita vera. Pensiamo a ‘E la vita, la vita, / e la vita l’è bèla, l’è bèla, / basta avere l’ombrèla, l’ombrèla, / che ti para la testa, / sembra un giorno di festa’. E che cos’è l’ombrèla?”. L’ombrello? “Ma che ombrello! Certo che è l’ombrello: ma inteso come raccomandazione. Era un pezzo sulle raccomandazioni”» (Alessandra Comazzi). «Come porti i capelli bella bionda la sentimmo per la prima volta in un’osteria: non era esattamente così ma era già abbastanza surreale, la cantavano due tizi mentre giocavano a biliardo. La trovai divertente, e l’ho trasformata» (a Mario De Santis). «“Taaac!”. Era il soprannome di un amico del Derby, Mario Valera. Sono arrivato io e, “taaac!”, l’ho lanciato» (a Valerio Palmieri) • «La cosa buffa è che eravamo semplicemente noi stessi. In tv e al cinema ripetevamo cose che ci dicevamo tra noi. “E la Madooonaaa”, ad esempio, era una frase del nostro stare insieme la notte, nelle osterie di Milano e poi al Derby. Ma è diventata un tormentone, e i critici dissero: avete inventato un nuovo modo di fare comicità. […] La nostra forza era l’originalità. Avevamo qualcosa di innato che ci rendeva differenti dai comici che c’erano stati prima. […] Le nostre canzoni, il modo di interpretarle, le gambine che tenevano il tempo, lo sguardo fisso sulla telecamera. Eravamo glaciali, non abbiamo mai chiesto l’applauso al pubblico. E abbiamo cantato di galline e di indiani, di omosessuali. Roba fuori dal mondo per l’epoca. Ma, alla fine, la vita era sempre bèla» (a Leonardo Iannacci).