5 settembre 2018
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Biografia di Daniele Luchetti
Daniele Luchetti, nato a Roma il 25 luglio 1960 (58 anni). Regista. Sceneggiatore. Attore. «C’è, nel mio modo di narrare, un tendere spontaneo all’affettuoso ritratto dei personaggi. Non mi sento mai superiore ai miei personaggi, ma ne racconto le ingenuità con sincero rispetto» • «Papà [Luca Luchetti (1938-1993) – ndr] era uno scultore d’avanguardia, ma sapeva restaurare le statue classiche. Viveva il continuo dilemma tra l’essere moderno e avere le capacità di un artista antico. Non era mai completamente a suo agio nel proprio talento. E quando invece ha trovato la serenità è morto di cancro, aveva la mia età. Mamma viene da una famiglia borghese romana di commercianti, non molto attenti alla cultura ma bravi a fare soldi. Lei e mio padre erano diversi, lui non la sopportava ma non poteva farne a meno. Le chiedeva libertà ed era lusingato dalla sua gelosia. […] In quei giorni "felici" è iniziata la mia passione: i cartoni animati, la prima cinepresa in regalo. A casa mia tutti amavano il cinema. E io andavo al primo spettacolo con nonna, al secondo con gli zii e al terzo con i miei genitori. Avevo una zia che amava i film che definiva "schizofrenici", cioè che non capiva: Antonioni, Bergman. Io li adoravo, quei film, e cercavo di spiegarglieli, facendo finta di capirli. 8 ½ l’ho visto con mio fratello e la domestica sarda di mia nonna, che voleva indietro i soldi del biglietto. Il fiore delle Mille e una notte di Pasolini l’ho visto nascosto dai miei genitori nel bagagliaio di una Diane, in un drive-in» (ad Arianna Finos). «Essendo cresciuto in una famiglia d’artisti (mio padre era uno scultore e mio nonno un pittore), il rapporto con la decifrazione di un’opera d’arte l’ho sempre vissuto come un gioco di famiglia, tra il mercante in fiera e la tombola. Mio padre sfogliava i libri di storia dell’arte e mi diceva: “Dimmi cosa è bello e cosa è brutto”. Naturalmente da piccolo sei attratto dalle cose appariscenti. Io dicevo “Questo è bello”, e lui mi diceva: “No, questo è brutto”. Insomma, ad un certo punto impari a leggere dei segni, anche precocemente. A parte questo dettaglio, ero un bambino con gusti normalissimi. […] I miei film preferiti erano i film d’avventura, o i film di vampiri… Però la prima folgorazione vera ce l’ho avuta con Amarcord, nel ’74, e ricordo che tornando a casa mi avventurai a commentarlo in un tema. Di quel film mi colpì l’assoluta libertà: c’erano cose che non avevo mai visto in vita mia, mi catturò completamente. E poi mi piacevano molto anche i film che non capivo, forse proprio per il loro mistero. E anche 8 ½, che vidi in televisione, da bambino. Rimasi sveglio fino a tardi per terminare la visione. Non ci capivo niente, mi faceva impazzire di curiosità perché ero attratto da qualcosa di inconsueto. […] Il sogno di mio padre era che io diventassi restauratore. Per tutto il liceo mi sono addestrato al concorso per entrare all’Istituto centrale del restauro. Quindi studiavo storia dell’arte, imparavo a disegnare, a prepararmi ad un lavoro scientifico/artigianale, mentre la mia passione rimaneva il cinema. Così organizzavo cineforum a scuola, giravo spesso con il Super 8 dei piccoli film o cartoni animati. Mi divertivo a girare mescolando persone ed oggetti, usando mio fratello più piccolo come attore. Ma, quando è finito il liceo e dovevo finalmente tentare il concorso di restauro, ho chiesto a mio padre: “Senti, voglio provare per un paio d’anni a vedere se riesco a lavorare nel cinema. Se ci riesco, voglio seguire questa strada”. E lui mi ha dato una scadenza. Così mi iscrissi a Lettere. Tra un esame e l’altro invitavo – protetto dalla facoltà, ma per interessi personali – registi e sceneggiatori al teatro dell’ateneo, con la scusa di parlare del loro lavoro. Non appena erano in trappola, mi proponevo: “Fammi diventare il tuo assistente, schiavo, tuttofare”. Loro dicevano semplicemente: “No”. Tra autori attivi e non più attivi, parlai per un pomeriggio con Alessandro Blasetti, Dario Argento, Francesco Rosi, Zavattini. Provai ad invitare Fellini, che sgusciava come una anguilla con promesse mai mantenute, provai con Antonioni, che mi metteva soggezione. Snobbai Monicelli e Risi, ahimè, perché erano anni idioti che ci avevano foderato gli occhi con una ottusità oggi inspiegabile. In quella situazione ho conosciuto Renzo Rossellini, e con lui ho contribuito alla fondazione di una scuola di cinema che è stata la Scuola di cinema della Gaumont, nella quale mi infilai come allievo. Missione compiuta. Più tardi, alla scuola Gaumont, ho conosciuto Nanni [Moretti – ndr], che stava girando Sogni d’oro. Venne a farci lezione mentre lavoravamo in due teatri adiacenti: noi ai saggi della scuola di cinema e lui a Sogni d’oro. Accadde che facemmo amicizia, e mi chiamò a fare l’assistente in Bianca nell’83. Arrivarono i miei primi guadagni, mio padre si dovette arrendere e l’esame di restauro non l’ho mai fatto. Tra il 1983 e 1987 feci una decina di film come assistente, aiuto, cast. I più importanti sono i due film di Nanni, La messa è finita e Bianca. Su Bianca ero assistente e su La messa è finita ero aiuto. […] Quando Moretti con Barbagallo ha fondato la Sacher film, anzi prima ancora, era consapevole di voler produrre film di giovani. Abbiamo cercato per un po’ di tempo delle idee, e ad un certo punto ci eravamo appassionati ad un soggetto mio quando arrivò un soggetto scritto da Bernini, Pasquini e Mazzacurati: è diventato Domani accadrà, che fu il mio primo film» (a Ignazio Senatore). «La storia dei due butteri in viaggio per la Maremma nella metà dell’800 gli varrà il David di Donatello per il miglior film esordiente e la menzione Caméra d’or al Festival di Cannes. […] “Erano anni in cui sembrava esserci una scissione molto netta tra chi faceva cinema di qualità inteso come cinema autobiografico, autoreferenziale e possibilmente in relazione con i grandi maestri del passato (quindi Fellini ed Antonioni), un cinema manierista e poco digeribile, e chi faceva un cinema commerciale. Domani accadrà era uno dei primi film, dopo anni, fatti da un appassionato di cinema che però cerca di andare verso il pubblico senza rinunciare alla qualità, all’invenzione, all’originalità, cercando di divertirlo. Poi ci sono degli elementi particolarmente strani, un film se vogliamo quasi da liceale, però funzionava perché c’era una freschezza, una novità dentro”» (Anna Esposito). Seguì, nel 1990, La settimana della sfinge («“Pecca di fellinismo”, mi disse un critico, e ne fui talmente ferito che da lì in poi evitai le citazioni e i riferimenti»), e, nel 1991, il primo grande successo: Il portaborse. «Nella prima scrittura del Portaborse, l’onorevole Botero doveva essere un politico della vecchia guardia, un sessantenne… Così per il ruolo avevo pensato a Gian Maria Volonté, a cui non era piaciuto il soggetto, a Giancarlo Giannini, che voleva troppi soldi, poi a Renato Carpentieri e Paolo Villaggio. Ma tutte queste scelte avevano qualcosa di artificioso… Quindi mi venne in mente di proporlo a Moretti, che era il produttore: mi aveva suggerito lui quel soggetto di Pasquini e Bernini, sceneggiatori con cui collaboravo già nei film precedenti. All’inizio Nanni oppose resistenza: "Sono troppo giovane, troppo bello, troppo democratico". In effetti allora non c’era una classe politica così giovane, che sarebbe venuta dopo, con D’Alema e Veltroni, che poi invecchiarono anche loro. Ma, allora, nel ’91, scegliere Nanni Moretti per quel ruolo era una premonizione di cose che sarebbero arrivate dopo, come il potere seduttivo di un politico». «Sette miliardi di incasso e una storia, quella di Cesare Botero, un giovane ministro dedito al lucro e al broglio nell’Italia della Prima Repubblica, che fotografava in presa diretta crepe e abissi all’epoca sottovalutati. […] “La sera in cui uscì il film nelle sale andammo a comprare il giornale in gruppo per leggere il tenore delle critiche. Aspettai fino a mezzanotte e mezza, non arrivò mezzo quotidiano e andai a dormire. Mezz’ora dopo mi telefonò Silvio Orlando: ‘Siamo rovinati! – ripeteva – siamo rovinati!’, ‘Che è successo?’, domandai. Barbara Palombelli, rapida, era andata a vedere il film con Giulio Di Donato, e sulla prima pagina di Repubblica c’erano le parole dell’esponente socialista. Era arrabbiatissimo: ‘Il film è da buttare’, tuonava. Sembrava l’annuncio del nostro arresto imminente, e invece la reazione della politica ci diede una mano”. […] La vera differenza con il cinema politico di qualche anno prima era nei personaggi. Non più monolitici, ma tutti bifronti, con una doppia faccia. Nanni era un uomo politico corrotto e aggressivo, ma era al tempo stesso molto affascinante. Silvio era un giovane uomo di talento, tendenzialmente di sinistra, ma sedotto dal lusso e dal potere» (a Malcom Pagani). «Dopo Il portaborse, Luchetti gira Arriva la bufera, la storia di un giudice, poi La scuola, sempre con Orlando, professore di sinistra che fallisce e non riesce a cambiare niente, un altro successo. Il giovane regista […] entra in crisi dopo il flop dei Piccoli maestri, storia sentimentale della Resistenza vissuta nel Partito d’azione. Oggi ricorda con amarezza: “È stato un massacro generale. Ho capito che non si potevano toccare i partigiani: non ho fatto i conti con i miti della sinistra. Sono caduto in depressione, sono andato in analisi, ho scritto e buttato tanti film, per fortuna nel frattempo ho messo su casa e famiglia”» (Barbara Palombelli). Dopo un altro insuccesso, la commedia Dillo con parole mie (2003), fu la volta del fortunato Mio fratello è figlio unico (2007), pellicola in cui Luchetti diresse per la prima volta Elio Germano, divenuto poi uno dei suoi attori-feticcio. «Il film è tratto da un romanzo di Pennacchi che si chiama Il fasciocomunista, che era un titolo sgradevole, non convinceva né me né gli altri scrittori. Così, un giorno, in un ufficio di produzione, il produttore disse: “Adesso faremo notte finché non usciamo con un bel titolo appetitoso”. Allora io, che avevo fretta – dovevo andare al cinema, dovevo sbrigarmi –, presi il mio iPod con la musica e dissi: “Il primo pezzo che salta fuori è il titolo del film”. E il primo pezzo fu Mio fratello è figlio unico, canzone di Rino Gaetano. Piacque a tutti. E quindi abbiamo tenuto questo titolo, perché nel film c’è qualcosa che ha a che fare con una competizione tra fratelli. […] A parte qualche eccezione penso che avere il romanziere accanto per un regista sia molto pericoloso. […] Il film è il punto di vista di una persona sola. Non può essere di due. […] E così, nel caso di Pennacchi, ho deciso di ricostruire la vita di Pennacchi, ma senza chiedere a lui. Si è arrabbiato moltissimo. Alla fine però il film gli piacque molto, anche se gli avevamo tradito il romanzo» (ad Anna Maria Micheli Kiel). Seguirono due film ambientati negli anni Settanta: nel 2010 il drammatico La nostra vita, apprezzato da pubblico e critica (unico film italiano in concorso quell’anno a Cannes e candidato alla Palma d’oro, valse al protagonista Germano il premio per la miglior interpretazione maschile), e nel 2013 la commedia fortemente autobiografica Anni felici (con Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti a impersonare i genitori di Luchetti), piuttosto sfortunata («Lì racconto la storia della mia famiglia dentro il mondo delle avanguardie artistiche di quegli anni. E lo trovo un film affettuoso», «È un film che non ho risolto. Molto personale. Non è venuto come volevo. O forse non ho mai saputo come lo volevo. O forse semplicemente non dovevo farlo»). Da ultimo, ha firmato, nel 2015, il film biografico su papa Francesco Chiamatemi Francesco. Il papa della gente, buon successo di pubblico, e, nel 2018, la «commedia all’italiana» Io sono Tempesta, con Marco Giallini ed Elio Germano. Attualmente sta girando a Palermo Momenti di trascurabile felicità, ispirato all’omonimo romanzo di Francesco Piccolo, con protagonista Pif • Ha diretto anche alcuni documentari (tra cui 12 personaggi, del 2000) e numerosi filmati pubblicitari televisivi, il più celebre dei quali è quello del Maxibon Motta in cui lanciò Stefano Accorsi, facendogli pronunciare lo slogan maccheronico «Du gust is megl’ che uan». «All’inizio mi dissero che mi ero venduto al capitale. Ma tutti fanno pubblicità, anche se non lo dicono: Kiarostami ci finanzia i suoi film. Io uso la pubblicità anche per fare qualche esperimento espressivo o per provare un attore. Un esempio? La camera a spalla. Prima di utilizzarla in Mio fratello è figlio unico l’ho sperimentata negli spot con Christian De Sica» (a Vittorio Zincone) • Separato, due figli • Di sinistra. «Io sono praticamente un nostalgico del vecchio Pci: un tempo avevamo idee, usavamo parole come uguaglianza, impegno civile… Ora il Pd sembra inseguire solo la crescita del Pil» • «Dopo Il portaborse avrei potuto fare cinema politico e campare allegramente all’infinito. Mai accettato di essere il cliché: cerchiamo di uscire dal vicolo cieco, rivendico il diritto al gioco. Il cinema di qualità, che registra disaffezione del pubblico, non dev’essere solo malinconia e rabbia». «Quando ho fatto il mio primo film avevo 26-27 anni ed ero stanchissimo. Pensavo che non mi sarei più ripreso. Incontrai Bernardo Bertolucci ad una premiazione. Aveva appena finito L’ultimo imperatore, aveva venti anni di più ed era fresco come una rosa. Gli ho chiesto: “Scusa, spiegami come si fa a sopravvivere facendo questo mestiere, perché io non lo so”. E lui mi diede un consiglio che mi son sempre portato dietro: “Quando tu giri un film, non sei strappato alla vita, ai tuoi affetti, alla vita quotidiana. Il film è la tua vita”. E quello mi ha aiutato istantaneamente a sopportare».