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 2018  settembre 04 Martedì calendario

La Libia ostaggio delle milizie e di un’Europa in ordine sparso

Fayez Serraj, il “premier dimezzato”, riuscirà anche questa volta a superare la crisi? I combattimenti in corso a Tripoli tra milizie rivali sono arrivati ieri nel cuore della città. Nel quartiere di Abu Salim, appena sei km in linea d’aria da Piazza dei Martiri, i ribelli della Settima Brigata, milizia anti-governativa di stanza a Tarhuna, a sud della capitale, hanno ingaggiato duri scontri con un altro gruppo di milizie, che fanno parte di unità speciali dei ministeri dell’Interno e della Difesa del governo Serraj. Vale a dire le Brigate Rivoluzionarie di Tripoli, la Forza speciale di Dissuasione, la Brigata Abu Salim e la Brigata Nawassi. Si tratta dell’offensiva più violenta dall’estate del 2014 (le vittime sarebbero oltre 50, i feriti centinaia). L’obiettivo annunciato dalla Settima brigata è porre fine al potere delle “milizie corrotte” che controllano la capitale e riportare l’ordine. I nemici attuali della Settima Brigata sono dunque altre milizie, che tuttavia fanno parte di unità speciali dei ministeri dell’Interno e della Difesa del Governo di accordo nazionale, l’Esecutivo sostenuto dalla Comunità internazionale insediatosi a Tripoli nel marzo 2016. Davanti a un’offensiva che pareva molto pericolosa Serraj ha preferito invocare il sostegno della potente milizia di Misurata, la cui alleanza con il suo Governo non è così solida. Serraj confida ora che le decine di blindati inviati dai misuratini alle porte di Tripoli possano dissuadere i belligeranti a proseguire gli scontri. 
Ma il problema è sempre lo stesso: le milizie, le numerose tribù rivali, e le armi, di cui la Libia è sommersa. Tutti ci hanno provato. Chi più seriamente, chi meno. Nessuno ci è riuscito. Il disarmo delle oltre 100 milizie presenti in Libia è sempre stata la priorità per i numerosi primi ministri che si sono via via succeduti dalla morte di Muammar Gheddafi, nell’ottobre del 2011. D’altronde la condizione per avviare un Paese uscito da 42 anni di regime a una credibile transizione democratica è il ripristino della sicurezza. Senza un esercito nazionale ben armato e compatto, capace di esercitare una funzione deterrente, chiunque abbia a disposizione un gruppo adeguatamente armato si sente in diritto di reclamare una fetta di potere. 
Se questa è la “nuova Libia” in cui dovrebbero svolgersi le elezioni presidenziali e politiche tra soli tre mesi, un voto fortemente voluto dal presidente francese Emmanuel Macron, c’è da augurarsi che vengano posticipate il più in là possibile.
Finora Serraj è sempre riuscito a domare le rivolte, ma è innegabile che la sua autorità è sempre più debole. Non può fare affidamento su di un esercito compatto ma su un coacervo di gruppi armati che rispondono prima agli interessi dei loro capi tribù che a quelli del Governo. 
Il destino di Tripoli, e dunque del suo Governo, è ora in mano alla milizia di Misurata. Ironia della sorte si tratta di uno dei 13 potenti gruppi armati che si rifiutarono di partecipare alla conferenza internazionale sulla Libia organizzata a fine maggio dall’Eliseo. Quella conferenza, definita un’iniziativa unilaterale da chi la criticava, aveva irritato la diplomazia italiana. Era evidente che invitare i quattro uomini più potenti della Libia (Serraj, il generale Kalifa Haftar, suo acceso rivale e signore della Cirenaica, il presidente del Consiglio di Stato, Khaled al-Mishri, esponente dei Fratelli musulmani, anche lui nemico di Haftar, e il presidente del Parlamento di Tobruk, Aguilah Salah Issa) non significava far sedere allo stesso tavolo tutte le anime della Libia. L’intesa raggiunta era molto ambiziosa: unificare le istituzioni, tra cui la strategica Banca Centrale, indire elezioni già in dicembre (accorpando le parlamentari alle presidenziali), formare un esercito nazionale. Ma il fatto che non fosse stata firmata dai presenti – si trattava solo di un impegno – relegava questo “successo” all’ennesima dichiarazione di intenti in attesa della prova dei fatti. I fatti sono arrivati. Ma non come sperava Macron.
Il presidente francese è comunque deciso a far rispettare il calendario elettorale. Organizzare elezioni senza istituzioni rischia tuttavia di peggiorare la situazione. Un trasferimento del potere necessita di un contesto istituzionale coerente e ordinato che garantisca un suo svolgimento pacifico. Deve dunque essere supportato da un sistema giudiziario efficiente. È inoltre fondamentale un quadro di legalità in cui siano delineati con precisione i poteri, le responsabilità, le regole dei futuri governanti. Non si può peraltro prescindere da un genuino impegno da parte di tutti gli attori coinvolti ad accettare i risultati che usciranno dalla urne. 
A tre mesi da voto (se mai si farà) di tutto ciò non c’è traccia. Non è nemmeno chiara la base costituzionale per il voto. Se si farà ricorso alla legislazione vigente o se sarà necessario scrivere quella nuova Costituzione il cui referendum continua ad essere rinviato. In questo infuocato contesto le elezioni rischiano di approfondire, e non sanare, le già profonde divisioni. E per chi teme di essere escluso dalla transizione, e dalle ricche risorse energetiche, è un valido motivo per imbracciare le armi.