Corriere della Sera, 4 settembre 2018
Atletica, sui record africani l’ombra del doping
Quando e quanto si dovrà riscrivere la storia dell’atletica leggera alla voce «corse di resistenza»? Tra dieci anni crederemo ancora che 92 delle 100 migliori prestazioni mondiali di maratona battano bandiera keniana o etiope solo per via degli allenamenti in quota che moltiplicano i globuli rossi, di fibre muscolari nobili, tendini indistruttibili ed enorme predisposizione al sacrificio dovuta alla fame? O terremo conto del recente rapporto dell’Athletics Integrity Unit, unità indipendente di prevenzione antidoping, che segnala come, a dispetto di controlli blandi, ogni mese due keniani o etiopi finiscono nella rete del doping?
Della situazione drammatica si è accorta anche la federazione di atletica (Iaaf) che ha inserito le due nazioni in una categoria di controllo speciale (A): dal 1° gennaio 2019 etiopi e keniani intenzionati a partecipare a Olimpiadi e Mondiali dovranno superare almeno tre controlli a sorpresa a stagione. Normale in Europa o Usa, difficilissimo in Africa per difficoltà logistiche, mancanza di fondi e personale addestrato e per una rete di complicità che fa scattare l’allarme rosso appena un ispettore atterra a Nairobi o Addis Abeba. Non si parla di «mancati controlli», sanzionabili, ma di medici che girano a vuoto tra villaggio e villaggio o nella savana e tornano a mani vuote alla base.
I 50 positivi degli ultimi tre anni sono stati beccati con controlli programmati, ma una recente spedizione (mascherata da esperimento scientifico per non destare sospetti) di consulenti Iaaf ha definito «imbarazzanti» i parametri ematici medi della popolazione di fondisti lontani dalle gare. Appena i controllori hanno spinto sull’acceleratore il muro ha cominciato a incrinarsi: Epo (la si compra liberamente in farmacia) per Rita Jeptoo – regina di maratona a Chicago, Boston e Parigi – e Jemima Sumgong, campionessa olimpica in carica. Epo per Asbel Kiprop, tre titoli mondiali e uno olimpico nei 1500 metri. Ma anche sostanze come la morfina (Lucy Wangui, prima a Milano) che aiuterebbe gli atleti a sopravvivere a trasferte ripetute e folli sull’asse Africa-Europa-Usa per gareggiare e poi tornare a «caricarsi» alla base, in sicurezza.
Per provare a frenare il fenomeno, cinque giorni fa l’agenzia mondiale antidoping (Wada) ha accreditato il primo laboratorio dell’Africa occidentale, a Nairobi. Obiettivo: formare specialisti ed effettuare test rapidi. Pur sapendo bene che la potenza economica e politica (anche federale) dei signori del doping in Africa (e di certi manager) è dieci volte superiore a quella di chi vuole combatterlo.