Il Messaggero, 3 settembre 2018
Il caso di Francesca Bria, giovane economista italiana, diventata assessore all’Innovazione della città di Barcellona. Intervista
Francesca Bria è una giovane economista italiana che oggi porta lustro al nostro Paese nelle vesti di assessore all’Innovazione della città di Barcellona. Prima di entrare dalla porta principale nel Comune catalano, questa italiana eccellente ha lavorato alla Nesta, l’agenzia per l’innovazione sociale britannica. Era il 2016 quando Francesca Bria, 39 anni, romana, è stata chiamata a ricoprire il ruolo di Chief technology and digital innovation officer nel capoluogo dalla Catalogna. All’epoca in Gran Bretagna era coordinatrice del progetto europeo D-Cent per la creazione di strumenti digitali, con architettura decentralizzata, software open source, per la democrazia partecipata e per lo sviluppo delle capacità di emancipazione economica. Non a caso sono state queste le corde toccate anche dal Comune di Barcellona, una città all’avanguardia che da sempre alimenta l’ecosistema pubblico-privato e in cui trovano posto incubatori per la crescita delle startup, centri di connessione tra le aziende tradizionali e le più piccole imprese innovative.
Sulla scia di queste esperienze, Francesca Bria ha anche scritto un libro a quattro mani con Evgeny Morozov, Ripensare le Smart City (Codice Edizioni). Un saggio che indaga i temi dell’innovazione senza però lesinare critiche: dallo scollegamento con i problemi reali della gente alla ricerca tecnocratica del dominio sulla nostra vita urbana. Per chi volesse approfondire i temi, l’occasione si presenterà sabato prossimo a Camogli (vedi box).
Partiamo dal suo saggio: lei e Morozov analizzate con approccio critico le smart city, studiando le connessioni tra le infrastrutture digitali e i programmi politici ed economici che le città hanno intrapreso o potrebbero intraprendere.
«In primis ci tengo a dire che il messaggio di fondo del libro è che ci vuole una città di diritti digitali e non solo di servizi. Nella prima parte del saggio c’è una critica alla versione di smart city legata al capitalismo digitale predatorio in cui tecnologia e dati non vengono messi al servizio delle persone, ma diventano il nuovo branding su cui le grosse imprese del big tech si nascondono per fare business: un approccio monopolistico e privatistico delle nuove strutture che genera austerità digitale. Uno scenario poco incoraggiante in cui tutto è in mano a poche imprese. Per tacere della manipolazione dei dati personali. Nella seconda parte cerchiamo invece di segnare la strada, indicando quelle che sono le possibilità per tornare alla sovranità digitale, partendo dall’idea di rimettere dati e servizi a disposizione dei cittadini».
Lei è assessore a Barcellona, città che ha già dimostrato una spiccata propensione per queste tematiche. In Italia a che punto siamo? Ci sono città virtuose?
«Io sto lavorando su alcuni progetti con Milano, Torino e Roma. E, nell’insieme, vedo dei passi avanti. Roma, per esempio, ha dei problemi sotto il profilo infrastrutturale, ma ha fatto molto sul fronte del software libero e dell’open source. Milano è invece più all’avanguardia nel rapporto con l’industria delle piccole imprese e delle start-up. Torino è quella che sta lavorando di più sulla digitalizzazione degli spazi urbani. Certo, sotto molti aspetti l’Italia è ancora indietro; ma si intravede un inizio rispetto alla gestione dello spazio pubblico e della democrazia partecipata».
La battaglia sui dati personali e sul futuro digitale si può combattere anche mettendo in campo più cultura?
«L’aspetto culturale dell’educazione e della formazione serve a creare consapevolezza, ma da solo non basta; bisogna andare oltre. Ci vogliono misure concrete. Come, per esempio, la nuova regolazione sui dati personali dall’Europa. Certo, si tratta di una misura un po’ tardiva e un po’ troppo burocratica ma è un segnale che va nella direzione giusta. Rodotà in Italia su questi temi ha lavorato tantissimo. Adesso è arrivato il momento di far valere una concezione diversa. I dati non solo soltanto mercato, merce che può essere manipolata e venduta. Sono un patrimonio personale che va tutelato con dei diritti. La privacy non può essere tutelata attraverso dei servizi a pagamento presenti sul mercato ma deve diventare un diritto a tutti gli effetti».
Le città da questo punto di vista che ruolo hanno?
«Le città sono il luogo in cui si possono mettere in campo delle alternative. In cui si possono dare risposte più democratiche, in cui capire chi gestisce le sovrastrutture e dove i cittadini possono disporre dei propri dati, decidendo quali tenere privati e quali rendere pubblici».
Prima Londra alla Nesta, ora assessora a Barcellona: la possiamo considerare un cervello in fuga?
«Non so. Io ho avuto la necessità di andare fuori. Purtroppo in Italia la precarietà e un sistema bloccato mi hanno portato a cercare i miei spazi all’estero. A Londra sono arrivata con i miei studi e con il mio merito. Mentre oggi sono l’unica straniera nel governo catalano. Spero che anche in Italia si sblocchi la situazione. Sono convinta che in un contesto diverso molte menti brillanti tornerebbero in patria».