la Repubblica, 3 settembre 2018
Il musicista nero che converte i razzisti del KKK
La prima volta fu dopo un concerto. Un uomo lo avvicinò e gli disse che fino ad allora non aveva mai sentito un nero suonare il pianoforte meglio di Jerry Lee Lewis. «Io lo guardai e gli risposi: ma come, non sa che Jerry Lee Lewis ha imparato a suonare dai neri?». L’uomo lo fissò impietrito, poi lo invitò al suo tavolo. Dopo un po’ ammise di non aver mai bevuto una birra con un afroamericano. «Io non ci potevo credere: erano gli anni ’80, mica gli anni ’50!». L’uomo confessò di essere un membro del Ku Klux Klan. Quel giorno cominciò l’immensa avventura umana di Daryl Davis. Qualche mese e parecchi incontri dopo, quell’uomo lasciò il Ku Klux Klan. E negli ultimi trent’anni, il musicista sessantenne ha convinto «duecento persone, direttamente e indirettamente» a stracciare la tessera del KKK, ad abbandonare gruppi neonazisti e suprematisti, a rinunciare al loro piccolo universo fatto di paure, odio e razzismo.
Abbiamo intervistato Davis su Skype, dalla sua casa di Washington, nei giorni in cui è uscito il capolavoro di Spike Lee “Blackkklansman”. La differenza con il grandioso protagonista di quella vicenda è che Davis ha sempre agito a viso scoperto, mai in incognito. A un certo punto, alcuni suoi “convertiti” hanno cominciato a regalargli persino le loro tuniche bianche, i cappucci e le bandiere del Ku Klux Klan. «Un giorno un ragazzo che avevo convinto a lasciare il KKK mi disse che voleva bruciare tutto. Gli dissi ‘fermati! Vengo a prendere tutto io». Da allora ha messo insieme una piccola collezione, oltre due dozzine di tuniche e altri oggetti dell’organizzazione razzista fondata alla fine della Guerra di Secessione. «Un giorno vorrei farne un museo».
Davis ci tiene anche a puntualizzare che «non amo chiamarli ‘convertiti’. Anche per me è sempre una grande esperienza: cerco di scalfire il loro muro, di far nascere un dubbio, di creare un conflitto dentro di loro, convincerli ad abbandonare una bugia. Insomma: si auto-convertono.
Certo, ce ne sono tantissimi altri che non hanno voluto dialogare, che non cambieranno mai, che saranno sempre pieni di odio. Mi dispiace per loro, perché potrebbero vivere molto meglio». Il musicista di Washington crede fermamente nel dialogo. Merce rara di questi tempi.
Sicuramente la sua storia ha incuriosito una straordinaria organizzatrice di eventi culturali a Berlino come Tatiana Bazzichelli, che lo ha invitato la prossima settimana a parlare a un forum sui suprematismi organizzato dal suo Disruption Network Lab. Lì verrà presentato anche l’acclamato documentario su di lui, “Daryl Davis, Race & America”. In una scena alcuni sostenitori di ‘Black Lives Matter’ lo contestano e lo accusano, in sostanza, di “intelligenza col nemico”. Davis sorride. «Qualche mese dopo il documentario, mi hanno ricontattato. Hanno riconosciuto che la battaglia contro il razzismo ci unisce tutti». È vero, ammette Davis, la vittoria di Donald Trump «sulle prime mi ha depresso, perché sembra la sconfessione della cultura del dialogo che ho sempre coltivato, nella mia vita». Perché una cosa è certa, sostiene, dall’alto della sua trentennale frequentazione di neonazisti, cultori della razza bianca e xenofobi di ogni foggia: «non tutti gli elettori di Trump sono razzisti. Ma tutti i razzisti che conosco hanno votato per Trump». Un metodo vero e proprio, dopo migliaia di cene, di pranzi, di chiacchiere con estremisti di destra, non c’è.Figlio di un diplomatico, da bambino Davis era abituato a incontrare «persone di ogni nazionalità, di ogni tipo.
Un’esperienza che mi ha sempre consentito di trovarmi subito a mio agio con chiunque». E di vivere anche nell’illusione di essere uguale agli altri, anche quando era l’unico nero in una classe di bianchi. Finché un giorno, durante una parata di boy scout, il pubblico bianco non cominciò a tirargli pietre e altri oggetti. «Fu un risveglio scioccante». Da allora la domanda che lo ossessiona giorno e notte è «come fai a odiarmi, se neanche mi conosci?».