Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 02 Domenica calendario

Intervista a Kristin Scott Thomas, che ora fa la regista

Ricorda Artemis Cooper, nella biografia A Dangerous Innocence (2016), che quando Elizabeth Jane Howard aveva 26 anni, il suo agente, che era anche il suo amante, vendette il suo primo romanzo, The Beautiful Visit (1950), all’editore Jonathan Cape. Il quale, più vecchio di lei di oltre trent’anni, la invitò a pranzo, esordendo, «Ho fatto un Martini molto forte, ottimo per femmine col mestruo», e procedendo a inseguirla per tutta la stanza. Non andò diversamente con l’editore americano. «Perché gli uomini non dovrebbero cercare di venire a letto con lei?», le scrisse dopo una sua visita a New York. «Io la sogno ogni notte, mentre incede, nuda come un pesce, nella mia camera da letto». Ma forse, l’uomo che la ferì maggiormente, oltre a suo padre che le aveva fatto le prime avance a 15 anni, fu lo scrittore Kingsley Amis, padre di Martin e suo terzo marito. Alcolizzato, prese a odiarla, dileggiandola nel romanzo Girl, 20 (1971) mentre erano sposati, e osteggiando ogni suo tentativo di aiutarlo e di recuperare il matrimonio. E quando lei ebbe l’ardire di lasciarlo, ne fece un ritratto rovinoso in Stanley and the Women (1984), scrivendo che «le donne sono come i russi. Se fai esattamente ciò che vogliono, sei una persona costruttiva e promuovi la pace, ma se osi dissentire sei un imperialista».
Misoginia, molestie, maschilismo. Non era facile essere una donna bella e di talento negli anni Cinquanta e Sessanta. E però, per tutta la sua vita, Howard continuò a scrivere, e a scrivere d’amore. E se non era Sylvia Plath, in lei c’era qualcosa. Che Amis stesso scorse quando la incontrò dopo il suo Cambio di rotta (1959), e che anche il figlio Martin riconobbe, citandola più volte nei suoi libri e ringraziandola per quanto aveva fatto per entrambi. Ora Cambio di rotta esce in Italia per Fazi e la Howard, nota ai più per la saga dei Cazalet, vive una riscoperta. Tanto che Kristin Scott Thomas, protagonista de Il paziente inglese e amica della stessa Howard, morta a 90 anni nel 2014, ne farà un film da lei stessa diretto.
Perché portare questo romanzo al cinema? Che cosa l’ha conquistata di «Cambio di rotta»?
«Cambio di rotta ha scandito la mia vita. L’ho letto per la prima volta a 17 anni, quando me lo passò mia madre. Allora m’innamorai di Alberta, la giovane protagonista, profonda ed eloquente. Lei non voleva fare l’attrice, io sì ma ero troppo timida per dirlo. Quindici anni dopo ho ripreso in mano il romanzo e sono rimasta affascinata dal personaggio di Lillian. E ogni volta che lo rileggevo mi ritrovavo in un personaggio diverso. C’è il sogno della campagna inglese ma anche l’essere un outsider. Io che vivevo da molti anni in Francia vi ho rivisto me stessa. La scrittura di Howard è così densa, raffinata ma non artificiosa, così abile. Ma ciò che mi colpisce di più è il suo rifiuto di giudicare i propri personaggi».
Lei non è mai stata regista. Perché proprio adesso?
«È stato un percorso graduale. Inizialmente cercavo un regista che mi dirigesse nel ruolo di Lillian ma non ho trovato nessuno. Howard ha fatto in tempo a leggere la prima stesura ma in seguito il progetto è stato accantonato. Anni più tardi, con l’arrivo di Rebecca Lenkiewicz, fine sceneggiatrice e drammaturga, abbiamo volto il romanzo al presente e modificato alcune cose. Non lo chiamerei un adattamento, alla fine questo film è l’effetto che il romanzo ha avuto su di me. Cinema e letteratura sono animali diversi. Nella mia trasposizione sono rimasti temi fondamentali come l’amore e la perdita, ma prendiamo Alberta: vorremmo farle dire tutto ciò che dice nel romanzo e invece no. La cosa più difficile è tagliare. Inizieremo a girare in primavera».
Le relazioni sono molto cambiate. Cosa può dire Howard, nata nel 1923, alle donne del nostro tempo?
«Ancora moltissimo, io credo. Il suo modo di descrivere le relazioni è molto realistico e, anche se oggi le convenzioni sono diverse, ancora tanto attuale. Era una brillante osservatrice, una grande ascoltatrice. Non sembrava aver paura di nulla, anche se credo ne avesse. Quando la conobbi mi disse d’essere innamorata dell’amore, che non poteva non perdere la testa per uomini straordinari, come il poeta Cecil Day-Lewis, marito di una sua cara amica. Fu una donna sfortunata ma anche resiliente. Non si sentiva una vittima: tradì molto anche lei. Tutto per lei era vita. Anche quando, ormai anziana, venne sedotta da un truffatore, credo che in fondo sapesse quello che faceva, e dopo non ne fu imbarazzata più di tanto».
Quando uscì, «Cambio di rotta» fu incluso dal «Sunday Times» tra i migliori libri dell’anno, accanto a «Lolita» di Nabokov, appena pubblicato in Gran Bretagna. E però, nonostante il grande successo di pubblico, la maggior parte della critica l’ha snobbata per anni, e le sue biografie sono costellate di «fu» e un nome maschile «a incoraggiarla a diventare una scrittrice più seria».
«Vero. La sminuivano tutti, a partire da sua madre. Che quando Howard, a 23 anni, lasciò il primo marito, il naturalista Peter Scott, sposato a 19, per dedicarsi alla scrittura, le disse: “Sei una povera illusa. Cosa ti fa credere che qualcuno pubblicherebbe mai un tuo scritto, sciocca e ignorante come sei?”. La critica la liquidava come scrittrice rosa; gli editori, quando sperimentava, cercavano d’imporle il lieto fine, e lei più volte se ne andò. Fu difficilissimo ma anche, credo, per una donna come lei, estremamente eccitante. Era determinata, coraggiosa. Quando mollò Scott non portò nulla con sé, neanche la figlia di due anni, anche se in seguito recuperarono un rapporto. Ma Jane non è riducibile a stereotipi: la madre snaturata, la femminista, l’amante appassionata. Era una donna vera. Lasciò la figlia convinta che il celebre padre potesse meglio provvedere a lei. Un aspetto che adoro di Howard è proprio il suo amore per la domesticità. In tempi di emancipazione femminile, andava fiera d’essere anche una gran cuoca e una giardiniera. Su YouTube ci sono delle sue interviste dove, mentre sferruzza, fa affermazioni profondissime. Una grande lezione per certe femministe che a volte, pur di conformarsi, si negano ciò che amano».