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 2018  settembre 02 Domenica calendario

Più vero del vero, cioè un inganno

Realtà e finzione, inganno e disinganno. Da sempre l’arte fa ampio uso delle più diverse tecniche per ritrarre la realtà e modificarla, sulla base delle più diverse esigenze. Perché l’interpretazione del dato reale è sempre parafrasi, trasformazione, mistificazione. La mostra Thrill of Deception. From ancient art to virtual reality (fino al 13 gennaio alla Kunsthalle di Monaco di Baviera) parte da questo assunto: non possiamo più affidarci alla semplice evidenza del nostro sguardo, il digitale ha fatto tali passi che non è più possibile verificare con immediata certezza se ciò che vediamo è vero o falso, se non attraverso una minuziosa analisi. Ma tutto ciò non riguarda soltanto la realtà virtuale o aumentata di oggi, e neppure il solo mezzo fotografico, perché fin dall’antichità i pittori hanno giocato con i nostri sensi, e da sempre la vista è il senso più ingannato. 

Dalle invenzioni di Piranesi alle scale senza fine di Escher, dalle prospettive architettoniche esasperate affrescate da padre Andrea Pozzo nelle chiese gesuite ai molteplici «realismi» della pittura figurativa, fino al più artificioso iperrealismo (irreale) del digitale, l’arte occidentale si è manifestata (anche) attraverso una successione continua di illusioni ottiche e virtuosismi estremi. Frutto (e strumento) ora di elaborazioni filosofiche e speculazioni intellettuali, ora del più libero divertissement: ma sempre e comunque esito del talento e della padronanza tecnica propri di ogni singolo artista. 
Già nel 1960 Ernst H. Gombrich, nel suo Arte e illusione, indagava il modo di fare e di vedere l’arte attraverso temi come l’imitazione della natura e i meccanismi che regolano la percezione del mondo. Ma nella Kunsthalle di Monaco di Baviera l’estesissimo arco cronologico in mostra (quattro millenni di «eccitante esperienza artistica»: questo il lancio stampa) è indagato non solo attraverso l’opera di artisti (e non) più o meno noti (tra i primi: Cornelis Gijsbrechts, Andy Warhol, Gerhard Richter, Thomas Demand, Marcel Wanders, Laurie Anderson, Jean Paul Gaultier, Viktor&Rolf) ma soprattutto grazie a molteplici tagli interpretativi. Con un comun denominatore: la capacità, propria di ogni artista, di ribaltare la nostra consueta (pigra) lettura e interpretazione della realtà. 
L’esposizione parte proprio da questo assunto per raccontare come l’arte e le arti decorative, l’arredamento e il design, perfino la moda, hanno letto la realtà, il suo contrario e tutto ciò che vi sta in mezzo. Ecco gli affreschi pompeiani e, poco oltre, il cavolo verza, brillante di rugiada, che a un’analisi più attenta si rivela una zuppiera di porcellana. E poi il polipo (più precisamente, l’Ocythoe tuberculata), lucente nei suoi pigmenti, non fresco di pesca ma copia tardopositivista di vetro e gesso, capolavoro artistico con fini scientifici realizzato alla fine dell’Ottocento da Leopold e Rudolf Blaschka per l’Università di Vienna.

L’inganno è stato la fortuna della pittura olandese del Seicento, così come del trompe-l’oeil francese: ancora capaci di stupirci, in entrambi i casi, nonostante la nostra attuale consuetudine con la manipolazione delle immagini. Non solo Gijsbrechts, ma anche Wallerant Vaillant e Edwaert Collier furono maestri nel far emergere forme e figure dalla superficie della tela, proiettandole verso l’osservatore. Ne è sommo esempio, in mostra, la Natura morta con uccelli (1670) del fiammingo Frans van Cuyck de Myerhop. Più recentemente, l’installazione Chalkroom di Laurie Anderson e Hsin-Chien Huang, premiata come migliore esperienza di realtà virtuale dal Festival di Venezia del 2017, invita lo spettatore a fuggire dalla realtà proiettandolo in un universo immaginario e coinvolgente. Il realismo dell’esperienza non è molto diverso da quello vissuto osservando la testa di Giovanni Battista scolpita nel XVII secolo dallo spagnolo José de Mora, tanto verosimile da suscitare insieme compassione e orrore. 
La mostra dedica opportuno spazio anche all’appropriazione, alla copia e all’imitazione dei grandi maestri, declinazioni del concetto di inganno dello spettatore a cui, per molti secoli, gli artisti si sono dedicati per guadagnare reputazione e denari. 
Dal momento in cui, ormai in piena età romantica, si sviluppa il concetto di autorialità e di proprietà intellettuale dell’opera d’arte, e poi con la nascita della fotografia che consente la riproducibilità tecnica dell’opera, seppur su un altro supporto, si afferma il definitivo apprezzamento per l’opera originale e per la sua «aura». Il copiare diviene atto riprovevole, ameno fino al citazionismo colto e divertito della Pop Art e del Postmoderno (tra tutti). E oggi? Il fatto che Van Gogh sia riproducibile su un paio di scarpe da ginnastica (come appena annunciato dal Van Gogh Museum di Amsterdam) rende quelle scarpe un’opera d’arte? E quale significato e valore attribuire alle t-shirt di Gaultier o di Margiela che simulano tatuaggi? Perché l’estetica contemporanea ruota attorno all’assunto secondo il quale tutto ciò che vediamo è reale, fake news comprese. Forse l’uomo del terzo millennio non è poi così diverso dal suo progenitore, terrorizzato dalla locomotiva che nel 1896 usciva dallo schermo grazie ai fratelli Lumière: se oggi non si fa più sorprendere dal mezzo cinematografico, è però facilmente disposto a illudersi e lasciarsi ingannare dalla più sfrenata e irrealistica delle realtà virtuali.