La Lettura, 2 settembre 2018
Nella factory di Tintoretto
Due quadri, due figure immerse nella notte. Due donne. Siamo negli anni Ottanta del Cinquecento ma l’aura sembra quella del preromanticismo: natura, mistero, solitudine e contemplazione davanti all’immensità. I corpi non sono al centro della composizione ma laterali, quasi sopraffatti dalla vegetazione, dalle rocce e dal cielo. «Sono dipinti poco decifrabili», si infervora Peter Greenaway, regista inglese (1942), grande appassionato di arte italiana. «Non sappiamo neppure che cosa rappresentino – continua, nella luce fioca della Sala Capitolare della Scuola di San Rocco – né siamo in grado di dire se sia proprio Maria il soggetto. Il paesaggio è cupo: ho la sensazione che Tintoretto fosse naturalmente attratto dalla drammaticità che sprigiona l’ora magica del tramonto, un momento che produce effetti di luce straordinari. Non ha seguito l’iconologia cristiana classica, ma ha preferito intraprendere un viaggio privato».
La Vergine Maria in meditazione e La Vergine Maria leggente di Tintoretto hanno lasciato a fine maggio il loro posto, al piano terra della Scuola Grande di San Rocco, a Venezia, per essere restaurate. L’operazione non è stata condotta da una fondazione o da un museo ma è completamente firmata da Sky. Le due Marie, il loro recupero, San Rocco, il genio del pittore e la gloria del Rinascimento veneziano saranno poi i protagonisti del film documentario Tintoretto prodotto da Sky Arts Production Hub. Lo ha girato Pepsy Romanoff, specializzato in film musicali, regista di Vasco Rossi (suo Vasco Modena Park. Il film) e di molti rapper. Sarà proiettato nei cinema all’inizio dell’anno prossimo e successivamente trasmesso su tutti i canali Sky Arte in Europa. La pellicola racconterà l’ascesa di Jacopo Robusti (1518/19-1594), figlio di un «tintore», pittore di successo ma anche scaltro imprenditore di se stesso.
Il suo tratto è rapido, nervoso, a volte convulso, interessato a restituire tensione, dramma, stupore. Talento anticonformista, lontano dalla compostezza di Tiziano e Veronese al punto da trasformare le differenze poetiche in umana inimicizia, Tintoretto non si allontana volentieri dalla sua città, forse non ha visto direttamente le opere di Raffaello e Michelangelo. Ma poco sembra importargliene, concentrato com’è in un’aggressiva strategia di conquista di mercato: sgomita, regala con spregiudicatezza le opere in cambio di visibilità, diremmo oggi, scavalcando le regole dei concorsi. Una popolarità sorretta dalla bottega, dove lavorano i figli ma anche artisti locali o di passaggio. Tiziano lo odia, mescolando gelosia a un po’ di invidia per i suoi successi. Vasari lo liquida un po’ snobisticamente accusandolo di aver studiato poco e di essersi formato sulla pratica. Non cambia molto. Scuola Grande di San Rocco, quella di San Marco, Palazzo Ducale, le grandi tele per la chiesa della Madonna dell’Orto, Libreria Sansoviniana, un gran numero di ritratti: la factory di Tintoretto è una macchina inarrestabile.
Il regista di I misteri del giardino di Compton House (1982), Lo zoo di Venere (1985) e Nightwatching (2007) offre uno dei contributi nel film documentario di Sky Arts Production Hub, assieme – fra gli altri – a quelli della scrittrice Melania Mazzucco, degli studiosi Frederick Ilchman e Tom Nichols. «Sono sempre stato affascinato dai pittori veneziani – spiega Greenaway a “la Lettura” – e Tintoretto è il meno noto di tutti. Sono attratto dalle sue prospettive e profondità. Guardate Il ritrovamento del corpo di San Marco, dove lo sguardo si perde nella distanza. O La lavanda dei piedi: l’occhio si sposta da una parte all’altra, come in una partita di tennis. Tintoretto è interessato allo spazio. Mi fa pensare addirittura alla tecnica del deep focus introdotta da Orson Welles, dove viene messa a fuoco l’intera scena, anche gli oggetti più distanti. La sensazione è proprio quella di un trattamento cinematografico. Tintoretto si concentra su tanti soggetti e non ne predilige uno in particolare, non ti offre un centro sul quale riversare il significato del quadro. Pavimenti e soffitti pesanti, senso di claustrofobia, di ansia: un modo di dipingere sperimentale e coraggioso che straordinariamente avvicina questo artista alla modernità».
Un esempio è il Paradiso di Palazzo Ducale: un aldilà poco rassicurante, affollatissimo, dove si stenta a trovare un punto dove riposare lo sguardo. «Dove è Gesù nelle Nozze di Cana? – si chiede Greenaway – Si fa fatica a trovarlo. Tutto è complicato. Torniamo alla distinzione tra spirito apollineo e spirito dionisiaco: il primo propone un’armonia riconoscibile, compostezza e chiarezza, i chiaroscuri violenti dell’arte dionisiaca, invece, intendono privarci di ogni visione rasserenante. Ecco, Tintoretto appartiene a quest’ordine».
Le due Marie, dopo il restauro, prenderanno il volo nel marzo 2019 per Washington dove saranno esposte nella mostra Tintoretto: Artist of Renaissance Venice, a cura di Robert Echols e Frederick Ilchman. Perché un network televisivo si deve occupare di un restauro? «Raccontare il recupero di un’opera, filmarlo, ci aiuta a capire in modo approfondito il modus operandi di un artista – spiega Roberto Pisoni, direttore di Sky Arte – come abbiamo fatto per Caravaggio. Inoltre abbiamo voluto restituire la fruizione di due quadri alla comunità. Con Tintoretto abbiamo voluto riscoprire un artista la cui notorietà è leggermente inferiore ad altri suoi contemporanei ma il suo stile lo rende vicino ai nostri tempi».
Washington sarà il capitolo finale delle celebrazioni per il cinquecentenario della nascita di Tintoretto che prenderanno il via con le due grandi mostre veneziane: Tintoretto 1519/1594 a Palazzo Ducale, a cura di Robert Echols e Frederick Ilchman, e Il giovane Tintoretto, a cura di Roberta Battaglia, Paola Marini e Vittoria Romani, alle Gallerie dell’Accademia, entrambe aperte al pubblico dal 7 settembre. La prima è un’antologica con prestiti da tutto il mondo, tra i quali L’origine della Via Lattea (1575) dalla National Gallery di Londra, Susanna e i vecchioni (1577) dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, cinque tele dal Prado di Madrid, e ancora quadri da Parigi, Gent (Belgio), Lione, Dresda, Otterlo (Olanda), Praga, Rotterdam. L’esposizione alle Gallerie dell’Accademia si dedica invece al primo periodo dell’attività del pittore veneziano, dieci anni dal 1538 al 1548, fino al successo del Miracolo dello schiavo, con prestiti dal Louvre di Parigi, Prado, National Gallery di Washington, Uffizi di Firenze, Galleria Borghese di Roma, Wadsworth Atheneum di Hartford (Usa).
«C’è una divisione, forse semplicistica, che attraversa l’arte italiana. Troviamo i pittori “di testa” – riprende Greenaway – e i pittori “di cuore”. Esempi classici, tra i primi, sono Mantegna e Piero della Francesca, intellettuali che si occupano di composizione simbolica. In questo gioco, applicato all’arte veneta, possiamo certamente affermare che Veronese appartenga al club dei pittori “di testa” e si può suggerire che Tintoretto fosse invece legato al “cuore”, influenzato da un’attitudine emotiva piuttosto che intellettuale». In questo grande «cuore» è immersa l’intera Scuola di Rocco, scrigno di arte totale. Due livelli collegati da un maestoso scalone. «Un lavoro incredibile – conclude Greenaway – quando entri ti senti quasi sopraffatto. Ti guardi intorno senza sapere dove fissare lo sguardo perché c’è pittura dappertutto. E capisci che, al tramonto del Cinquecento, Tintoretto è l’ultimo grande pittore di luce e colore a Venezia».
Di nuovo l’attrazione per il colore. Del resto Tintoretto ce l’aveva scritta nel nome.