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 2018  settembre 02 Domenica calendario

La cancrena dei Medici tra padri bigotti e figli lussuriosi

Con L’ultima regina di Firenze, Luca Scarlini rinnova un genere letterario abbastanza negletto dagli scrittori italiani: un tipo di narrazione a metà strada fra il saggio vero e proprio, con tutte le sue esigenze di documentazione e probità scientifica, e il romanzo storico, con le sue inesauribili possibilità di mischiare liberamente il vero e l’invenzione. Ma cosa c’è, esattamente, tra questi due poli estremi? Un racconto di fatti reali ma animato dalla malizia, dal senso dell’umano, dal culto del dettaglio significativo che sono le prerogative del romanziere. Facile a dirsi, ma il compito si rivela tutt’altro che semplice al momento dell’esecuzione. Un esempio memorabile, al quale forse Scarlini si è direttamente ispirato, è I Luigi di Francia di Carlo Emilio Gadda (1964). Ma molto meno nota di quella dei grandi re francesi del XVII secolo, anzi quasi universalmente sconosciuta, è la storia dell’inesorabile estinzione della dinastia dei Medici e del lento, malinconico declino della gloriosa e irrequieta famiglia.
Vero topo di biblioteca nonché infaticabile collezionista di bizzarrie umane e artistiche, Scarlini era lo scrittore più adatto all’evocazione di un corteo di spettri che, una volta conosciuti, difficilmente potranno sparire dalla memoria del lettore, tanto grandiosa, inquietante, immedicabile ci appare, alla luce dei documenti e delle testimonianze attentamente vagliate, l’infelicità di questi granduchi, delle consorti, delle loro figlie, dei loro amanti e dei loro ruffiani. Si sa che raramente i re sono felici, sia nelle favole che nella realtà. Ma i lontani discendenti di Lorenzo il Magnifico furono una schiatta di nevrotici e viziosi che nemmeno a inventarli si potrebbe attingere al livello di disperazione che Scarlini ci mostra nei capitoli più intensi del suo libro.

Immenso e scomodo, Palazzo Pitti è l’epicentro di questa rovina scandita in un ritmo di sistole e diastole dalla più scrupolosa devozione cattolica e dal più sfrenato libertinaggio. Fanno da contorno alla reggia alcune ville in campagna, dove il male di vivere sembra più sopportabile ai padroni di Firenze, questa «capitale dell’autunno», come la definisce efficacemente Scarlini, «dove tutto è sospeso, appeso a un filo, dove ogni cosa può sparire con un colpo di tosse della Storia». Tra i ritratti che emergono con più efficacia dalle pagine di questo libro, un posto di rilievo spetta sicuramente a quello di Cosimo III, un Re Lear in sedicesimo, bigotto fino alla superstizione, afflitto dalla certezza che i suoi due figli maschi, Ferdinando e Gian Gastone, pur maritati come meglio non si potrebbe (almeno dal punto di vista del sangue blu) non potranno mai generare un erede del casato, con tutte le loro crapule alcoliche e sessuali.
Quando Cosimo muore, nel 1723, e Gian Gastone sale sul trono, inizia davvero l’ultimo atto di questa tragicommedia dinastica e familiare. L’ultima «regina» di Firenze, come spiritosamente la chiama Scarlini, regnerà per quasi 15 anni in quella che si può definire una lunghissima orgia terminale, degna di un film di Ken Russell. Il suo procacciatore di bei giovani ruspanti, pescati dai bassifondi di Firenze o ancora meglio nel contado, Giuliano Dami, scaltra «anima nera» di Palazzo Pitti, diventa in quegli anni il vero signore della città. Quanto al Granduca, obeso e quasi perennemente sbronzo, difficilmente esce dal suo immenso letto. È tutto il contrario di uno stupido, e prima di morire troverà il modo di onorare la memoria di Galileo, che i suoi avi avevano consegnato vigliaccamente all’Inquisizione. Ma il vino e i bei ragazzi sono le sue uniche vie d’uscita da un’esistenza che gli appare insopportabile quando non è annegata nell’oblio.
È tutto il contrario del padre, che amava solo la compagnia dei frati e delle beghine, ed era ossessionato dai privilegi reali e dalle questioni di etichetta che comportavano. Gian Gastone riceve in camicia da notte, una parrucca di traverso, spesso sporca di vomito. Ha proibito di aprire le finestre della sua stanza, così che per attenuare un po’ l’odore nauseabondo i servi spargono ovunque grandi quantità di rose. A volte un grande musico, come il veneziano Baldassarre Galuppi, accompagna alla spinetta le varie fasi dell’orgia che si svolgono sotto le cortine del grande letto. Dami organizza e controlla tutto quel traffico, disponendo della fiducia totale e della borsa del suo signore, e rubando nel frattempo tutto ciò che può. Non c’è forma di dimenticanza di se stessi che sia stabilmente efficace per i mortali, e ogni tanto un soprassalto di coscienza devasta la mente fragile di Gian Gastone, che prorompe in urla che echeggiano tutta la notte nei corridoi del palazzo.
Scarlini spreme fino all’ultima goccia le sue fonti storiche, e non si dimentica mai che siamo pur sempre a Firenze, e che i Medici, quali che siano le loro condizioni spirituali, sono abituati da secoli a proteggere i grandi artisti. Almeno due nomi emergono dalle cronache: quello di Giovan Battista Foggini (1652-1725) e quello di Gaetano Zummo (1656-1701). Prodigioso scultore, il Foggini è l’autore dello splendido monumento funebre a san Francesco Saverio che si ammira nella chiesa del Bom Jesus a Goa. È forse il gesto di devozione più insigne di Cosimo, che spedì l’enorme mausoleo in India diviso in pezzi e lo fece rimontare in loco. Il siciliano Zummo, invece, fu un maestro assoluto nell’arte di modellare la cera, ed è l’autore di alcune raccapriccianti raffigurazioni dei danni della peste, molto ammirate anche dal marchese de Sade quando visitò Firenze degli anni Settanta del Settecento.
Quello che ci descrive Scarlini nel suo bel libro, in fin dei conti, è certamente un abisso, ma vi persiste in modo paradossale, in tanta irrimediabile decadenza, quell’ideale di impeccabile eleganza e di civiltà supremamente raffinata che ancora oggi, soprattutto quando di notte si diradano le orde di turisti, è possibile percepire passeggiando per Firenze.