La Lettura, 2 settembre 2018
Invidie, dispetti e osceni sonetti: Baglione contro Caravaggio
La prova del fattaccio sta sul tavolo del giudice. Due foglietti spiegazzati, vergati fitti in color seppia. Giovanni Baglione li ha cercati per tutta Roma, poi s’è presentato impettito, con la sua collana d’oro, e li ha messi lì con una gran manata. «Dimando che si proceda come comporta la giustitia». Gli autori dei libelli, attacca, «m’han sempre perseguitato». Il Tribunale criminale del governatore registra la denuncia il 28 agosto 1603. Baglione, di professione pittore, si sente diffamato. E ha ragione, perché i sonetti in volgare sono un concentrato di beffe e oscenità su di lui: «Gioan Bagaglia tu non sai un ah/ le tue pitture sono pituresse/ volo vedere con esse/ che non guadagnerai/mai una patacca». E via ricordando nel dettaglio le nudità che mostrerà per strada, dato che con le sue opere non potrà comprarsi nemmeno «un paro di braghesse». L’artista, definito «vituperio della pittura», è assai risentito. Punta il dito contro Michelangelo Merisi da Caravaggio, pittore, Orazio Gentileschi, pittore, Onorio Longhi, architetto. Cita anche Filippo Trisegni, apprendista, che è solo testimone ma comunque finisce al fresco: usanza dell’epoca.
La denuncia è depositata, Baglione dichiara che i querelati «sono stati miei emoli et m’hanno havuto invidia vedendo che le mie opere sono in consideratione più che le loro». Invidia: la parola ricorre cinque volte nel testo. E la causa romana per i libelli infamanti ha inizio.
Per la giustizia questa è una pagina tecnicamente modesta: reati secondari, prove labili, indaga Alfonso Tomassino, semplice sostituto del giudice luogotenente. Eppure per la storia dell’arte il risvolto è cruciale. Nel corso del processo Caravaggio rilascia l’unico parere diretto sulla pittura del tempo e, ai ceppi, dà la sua definizione di buon pittore: colui che sa imitare la natura.
La querela e i verbali sono conservati all’Archivio di Stato di Roma: al Festivaletteratura il caso rivivrà giovedì 6 sul palco, mostrando dal lato inedito della giustizia anni turbolenti, fatti di intuizioni geniali, risse, dispetti tra artisti e guerre per le committenze.
Dunque, tra l’11 e il 12 settembre 1603 Caravaggio e Gentileschi vengono arrestati e spediti l’uno a Tor di Nona e l’altro nel carcere Savelli di via Monserrato. Longhi – che pure ha già picchiato, in passato, Baglione – al momento è lasciato fuori dal procedimento. Dalla denuncia sono passate due settimane, il tempo dell’indagine. Il querelante, in verità, si mangia il fegato da mesi: a marzo aveva presentato la sua Resurrezione per la chiesa del Gesù e il Merisi, ritrovandovi il proprio stile, s’era infuriato. «Micalangelo, quel quadro, pretendeva di farlo lui», la replica. Fatto sta che i versi iniziano a circolare e Giovanni impiega parecchio per trovarne una copia: gliela consegna Trisegni.
Sul piano probatorio, Tomassino sa di avere in mano gran poco. La perizia calligrafica è un buco nell’acqua: la scrittura sui foglietti non è degli accusati bensì di Trisegni, che ha copiato i versi per darli all’amico ma ora nega di sapere chi sia l’autore. Il giudice passa così ai pesci grossi. E sembra di vederli, i pensieri che vorticano nella sua testa: troppo leggera l’accusa, troppe le protezioni dei pittori per immaginare anche solo una tortura lieve lieve. Restano due opzioni. La prima: bluffare, fingere di aver le prove, far confessare gli inquisiti e condannare. La seconda, migliore: ottenere un formale giudizio positivo sull’arte di Baglione, cosa che libererebbe gli indagati dall’accusa e placherebbe il querelante.
Tomassino si presenta così a Tor di Nona. Negli stralci della trascrizione (lo schema rigido delle domande nell’originale è in latino) risuona scaltra e beffarda la voce di Caravaggio. Eccola.
L’inquisito è interrogato sulla sua attività.
— Fui preso l’altro giorno in piazza Navona, ma la causa et occasione perché sia io non lo so. L’essercizio mio è di pittore.
Interrogato se conosca altri pittori a Roma.
— Io credo cognoscere quasi tutti li pittori di Roma, non sono tutti valent’huomini.
Qui il notaio appunta incertezza e nervosismo. Il giudice insiste: vuole portare Michelangelo a parlare della Resurrezione e ottenere parole positive, ma l’altro non cede. Deluderà Tomassino, eppure rilascerà la storica dichiarazione sulla buona pittura. Un testamento. Il discrimine è il termine.
Interrogato su cosa intenda per «valentuomo».
— Presso di me vuol dire che sappi far bene dell’arte sua, così un pittore valent’huomo, che sappi dipingere bene et imitar bene le cose naturali (cita lo Zuccari, il Cavalier d’Arpino, il Pomarancio, Annibale Carracci e il Tempesta, ndr).
Interrogato se Baglione sia ben considerato.
— Io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione.
Interrogato sulla Resurrezione.
— A me non piace perché è goffa.
Interrogato sulla capacità di comporre in volgare.
— Signor, non che io non me deletto de compor versi. Né volgari né latini.
Il vero interesse di Baglione, quando fa l’esposto, non è probabilmente quello di veder dietro le sbarre i suoi detrattori. Vuole un accordo economico perché è al verde. E, soprattutto, vuole ripulita la propria reputazione. Il giudice sembra saperlo e si muove di conseguenza: non coinvolge mai il Longhi – visti i precedenti, minerebbe l’intesa – e con Orazio Gentileschi usa una nuova carta fornita dal diffamato, il quale integra la denuncia parlando di gelosia dei pittori per la collana d’oro che il cardinale Giustiniani gli ha donato in segno di stima. Un’ammissione di invidia indicherebbe abilità pittorica. E alla fine l’interrogato in qualche modo segue la linea, dicendo che il dono è stato mal digerito da altri.
Il processo si chiude. Nonostante le parole di Orazio, per Giovanni Baglione si rivelerà un disastro: i tre inquisiti verranno condannati senza versare uno scudo, il disprezzo di Caravaggio a verbale farà più danni delle poesie, la Resurrezione non gli verrà mai pagata e a un certo punto sparirà. I colpevoli se ne staranno ai domiciliari un mesetto, Caravaggio pure meno per intercessione dell’ambasciatore francese: libero di scorrazzare per Roma, come noto, non imparerà mai a rigare dritto. Nel 1606, accusato di omicidio, fuggirà dalla città. Braccato, morirà a Porto Ercole nel 1610, a 38 anni. Non farà in tempo a sapere che il Papa aveva deciso di condonargli il crimine.