La Lettura, 2 settembre 2018
L’incontro tra Maurizio Maggiani e Paolo Conte
Sono due nasi italiani diversamente esagerati quello di Paolo Conte e quello di Maurizio Maggiani. Seduti nello studio dell’Avvocato, dall’eleganza vagamente fané, i due profili non si somigliano. Non si somiglia neppure il loro modo di raccontare, parco di parole quello dell’Avvocato, accumulativo e ininterrotto quello dello scrittore.
Ma se siamo qui la ragione è l’ammirazione reciproca: più disarmata ed emotiva quella di Maggiani, più sorniona quella di Conte, che dice di aver letto Il coraggio del pettirosso anni fa grazie al consiglio di un giovane amico di sua moglie Egle e di esserne rimasto folgorato, foudroyé. E adesso L’amore, il nuovo romanzo di Maggiani, in cui si trovano parecchi motivi-chiave della poetica contiana. Su tutti: il sentimento di (goffa, autoironica, provinciale) inadeguatezza maschile nel vivere l’innamoramento. Dal primo all’ultimo. E qui l’ultimo ha una particolare importanza, perché il racconto parte da lì, si allontana e torna sempre lì: nello stato di felicità raggiunta dallo sposo (il protagonista autobiografico) all’alba dei sessant’anni, e nella quotidianità in armonia con la donna amata (la sposa), con la casa di campagna e la natura circostante. Ma le ammaccature dello sposo, che nel corso della vita è stato il Figlio del popolo, il Fabbro e lo Zoppo, sono tante: fisiche (la gamba, gli occhi), politiche (l’anarchia sognata), emotive, sentimentali. «Addio dopo addio fino all’amore finale» è la frase che ricorre in questo romanzo di formazione per tappe amorose (Mari marina marosa, la Padoan, l’ombrosa Chiaretta e Ida l’amara fino alla sposa gentile). Un romanzo sensuale e concreto, nostalgico e duro che si estende nell’arco di una giornata piena di flussi mnemonici e sonori (le vecchie canzoni che accendono ricordi). «Ho lavorato molto per sinonimi e per etimi», dice Maggiani. E si vede, dall’aggettivazione ricca e dosata, dagli equilibri sintattici nella narrazione avvolgente che i suoi lettori ben conoscono.
MAURIZIO MAGGIANI – Lei non lo sa, ma la prima volta ci siamo visti a Genova.
PAOLO CONTE – A Genova?
MAURIZIO MAGGIANI – Io avevo 24 o 25 anni, con degli amici ero dal notaio per costituire una cooperativa per la produzione di audiovisivi. A un certo punto uno dei nostri chiede: senti, ci dai qualche indicazione sui diritti d’autore? Il notaio dice: aspetta, che c’è qui un collega che sa tutto. E viene fuori lei...
PAOLO CONTE – E ho dato qualche dritta?
MAURIZIO MAGGIANI – Tutto, tutto.
PAOLO CONTE – Ah però, ma guarda un po’. Chissà che cosa ci facevo lì.
MAURIZIO MAGGIANI – Io ho un senso di inferiorità nei suoi confronti. Nell’estate del ’68 avevo 17 anni, l’anno dopo avrei cominciato a lanciare bombe molotov. Ero in campagna dove sono nato, nella Val di Magra: finito il pranzo sotto il pergolo, con quel caldo s-ciopè, mi alzavo, andavo al bar del paese, fumavo, bevevo un amaro, mettevo 50 lire nel juke-box e ascoltavo Azzurro. Non sapevo che fosse sua, ma è lì che è cominciata questa roba tra me e lei, in quei pomeriggi da solo in un cortile a passeggiar... Era come se dall’adolescenza fossi assunto a una dimensione adulta…
Conte, una canzone con il titolo «L’amore» l’avrebbe mai scritta?
PAOLO CONTE – No, non sarei capace. Facendo canzoni, parlar d’amore diventa un po’ automatico, forse ancora per un retaggio dei troubadour provenzali. Nel Centro o nel Sud sono più dichiarativi ma io, essendo del Nord, non sono un madrigalista, racconto e raccontando mi metto nei personaggi: è normale che ci siano un uomo e una donna sempre un po’ in contrasto tra loro anche per una dinamica teatrale, ma il sentimento resta un po’ nascosto… Quando ho visto il titolo mi son detto: però!, qui andiamo sul difficile…
MAURIZIO MAGGIANI – (ride) Ormai posso permettermelo… potrei scrivere anche un libro intitolato Bibbia…
PAOLO CONTE – A quel punto però i diritti d’autore potrebbero crearle dei problemi. Comunque ha fatto bene, porca miseria, bene. Leggendo Il coraggio del pettirosso ho pensato: questo è uno che ci sa fare.
Un vero narratore…
PAOLO CONTE – Eh sì, nei suoi libri c’è di tutto, è complicato: anche qui, con tutti quei flashes back (sic!), bisogna stare attenti. Ci deve essere una ragione molto profonda che lui forse non dice, nell’uso del flash back dentro la realtà quotidiana di una giornata.
MAURIZIO MAGGIANI – Non è stato difficile andare con il ricordo a quando davvero ero al mare solo e con 500 lire…
PAOLO CONTE – Non con mille?
MAURIZIO MAGGIANI – No no, proprio con 500, e so cos’è un’auto che sa di vernice, di donne e di velocità, come nella sua canzone… Le sue non sono canzonette, sono canzoni: mi piace tutta la musica, anche le canzonette, ma le canzoni sono una cosa diversa, musica dentro le parole e parole dentro la musica. Le canzoni sue mi ammazzano, non le voglio più sentire, perché io voglio vivere una vita allegra, felice e senza nostalgie devastanti. E poi lei usa il bassotuba…
PAOLO CONTE – Nel bassotuba c’è una poesia infinita…
Nel romanzo c’è un magnifico personaggio, l’operaio Tiberio Nicola, il Tibe, che ha due passioni: jazz e rivoluzione.
MAURIZIO MAGGIANI – Era un amico che pur avendo l’enfisema suonava il bassotuba in un’orchestra dix, uno strumento immenso…
PAOLO CONTE – Il saxofòn…
MAURIZIO MAGGIANI – Una roba tremenda. Grazie a lui ho sentito tre volte Charlie Mingus, non a New York ma a La Spezia, perché era suo amico. E quando Chet Baker è uscito senza denti dal carcere di Lucca, il Tibe ha fatto una colletta per comprargli la dentiera. Era jazzista e comunista e, da operaio dell’Arsenale di Genova, aveva in dotazione una bicicletta di ghisa, pesantissima, è stato lui a insegnarmi a pedalare come si deve.
L’«allenamento a dire ti amo» com’è cambiato da una generazione all’altra?
PAOLO CONTE – Noi la donna la desideravamo, la filavamo ma non avevamo un dialogo. Io ho sposato una donna decisamente più giovane e con lei ho cominciato a sentire un modo nuovo di stare alla pari, però prima no, era un rapporto molto difficile che ha lasciato, se si vuole, anche una scia cavalleresca...
MAURIZIO MAGGIANI – Per me era diverso: le ragazze erano tutte femministe e mi han fatto rigar dritto, però quando ero un ragazzino di 13-14 anni e le volevo senza poterle avere, portavano ancora la sottana di taffetà: è lì che ho imparato la cavalleria, guardando come si comportavano i fidanzati delle mie zie.
La canzone di Conte a cui si pensa subito leggendo il romanzo di Maggiani è «L’ultima donna» («un giardino ci sembrerà... sì proprio l’ultimo approdo di terra»).
PAOLO CONTE – Siamo al limite del plagio… (ride). In quella canzone c’era leggerissimamente una sfida a Brassens, che aveva scritto: La première fille qu’on a pris dans ses bras. Io mi sono detto: vabbé, tu hai scritto la prima e io scrivo l’ultima. Poi le ragioni per cui personalmente mi capita di scrivere son sempre misteriose, si parte da una parola, da un colore, da un nome: Wanda mi piaceva forse anche per l’assonanza con «lavanda», il mio profumo preferito.
Lì si partiva da una visione celeste: «Areonautico è il cielo, vuoto abissale sarà…».
PAOLO CONTE – Eh sì, quella frase, in effetti, non mi è dispiaciuta.
MAURIZIO MAGGIANI – Poi non bisogna mai essere troppo intelligenti quando si scrive un romanzo o una canzone.
PAOLO CONTE – No, intelligenti mai, l’intelligenza non c’entra, no no.
Nel romanzo si balla come si ballava una volta, nei dancing di paese. Per ballare bene il tango, dice il narratore, vietato strusciarsi, palpare, parlare…
PAOLO CONTE – Dal libro si capisce che lui è un ottimo ballerino, io invece pessimo. Per cui tecnicamente non so quanto si debba star vicini. Ma il tango a me ha fatto sempre un po’ senso, mi risvegliava una specie di pudore, c’è sempre stato qualcosa che mi dava fastidio in quel senso del destino, in quella ritualità messa in piazza. Poi ho scritto dei tanghi, perché son ritmi belli su cui si scrive bene anche in italiano, senza troppa fatica di metrica.
MAURIZIO MAGGIANI – È sempre un giocare col fuoco, è lì il suo fascino. Nei primi anni Settanta, in piena rivoluzione, ballare il tango era una sfida. Io avevo la mia ballerina, l’ombrosa Chiaretta, comunista e femminista luxemburghiana, ma quando andavamo a ballare era un altro discorso… Nel tango ho sempre trovato il dolore delle donne… «Mare perché questa notte mi inviti a sognare…», la sentivo cantare dalle donne di casa ed era la malinconia delle femmine, anche delle ragazze degli anni Sessanta.
PAOLO CONTE – Il più grande tango in assoluto per me, sia come musica sia come parole, è A media luz, lì siamo fuori da tutto quel gioco perverso di mettere sulla scena le passioni, siamo proprio dentro la garçonnière di un seduttore ma con uno spirito e una classe…
La canzone nel libro è una luce che accende il ricordo (amoroso). Lo sposo ha Battisti, Patty Pravo, Jimmy Fontana...
MAURIZIO MAGGIANI – Fai l’anarchico e il rivoluzionario ma le canzonette non ti lasciano. Ti vergognavi un po’ ma le canzoni erano più forti della vergogna, erano un gesto di libertà, il rumore di fondo, perché la musica era dappertutto. Pensare che un rivoluzionario potesse cantare Battisti: «Dove vai quando poi resti sola...». Non c’era un pensiero ulteriore e nemmeno tanta musica, erano quattro note.
PAOLO CONTE – Però Battisti come musica valeva molto eh, era un grande autore. Comunque, io son più vecchio, e certe canzoni del passato che ho sentito da piccolo hanno un profumo, un veleno. Ma l’amore no per me ha un qualcosa di fatale, di inspiegabile… La generazione che ha fatto il Sessantotto credo sia legata a certe canzoni simbolo, mentre per noi, anzi per me, c’è un rapporto più di lontananza, una nostalgia non saprei dire di cosa: è un’essenza che annuso e che non trovo più.
MAURIZIO MAGGIANI – Io sono più vecchio della mia età, so certe canzoni anni Venti e Trenta che mi cantava mio padre: «Caro papà, ti scrivo e la mia mano quasi mi trema…». E io piangevo. «Vorrei baciare i tuoi capelli…».
PAOLO CONTE – «... le labbra tue e gli occhi tuoi severi...».
MAURIZIO MAGGIANI – E poi ho imparato il foxtrot e il valzer da dancing, non da balera, in un’epoca in cui le mie zie diciottenni non potendo andare a ballare da sole dovevano portare anche me, che avevo 7 o 8 anni. Al Dancing Carlini, se gli piacevano dei ragazzi ballavano con loro, se non gli piacevano dicevano: no, ballo con lui. E si attaccavano a me.
Il ritmo e la musica sono ingredienti indispensabili anche in letteratura.
PAOLO CONTE – E sì, col romanzo di Maggiani ti vien voglia di tornarci sopra per rimasticare e per individuare certi ritmi, come una musica. Ci si potrebbe avvicinare con una sensibilità cinematografica, individuando la musica con cui accompagnarlo. Per esempio, a me era piaciuta molto la colonna sonora di Blade Runner scritta da Vangelis, sentivi solo un rumore di fondo che andava e veniva, poi un momentino un piano suonato con tre dita, non era arte minimale ma ti lasciava, come dire?, annegare e di nuovo risalire in superficie.
MAURIZIO MAGGIANI – Per me scrivere smette di essere penoso quando trovo un ritmo interno. I camalli a Genova si portavano addosso anche cento chili di carbone: dalla nave al molo sulle travi elastiche riuscivano a non ammazzarsi danzando quasi, camminando a ritmi loro, tàn-tàn-tàn-tàn. Per me scrivere è la stessa cosa, se non trovo il ritmo diventa troppo pesante. Io non ho mai scritto a penna, il mio destino forse non era di fare il romanziere, avevo altre cose per la testa, ma è successo anche perché mi sono comprato un computer bellissimo, il primo Mac preso con 36 cambiali da 120 mila lire: quando trovo quel ritmo mi sento Manzarek che esegue un pezzo dei Doors alle tastiere. Sento il rumore dei tasti che diventa una musica mia.
A proposito di ritmi, c’è un trattore che risuona nella giornata dello sposo e c’è un trattore che risuona anche nell’infanzia del futuro avvocato-chansonnier.
PAOLO CONTE – La tenuta di mio nonno aveva un poggio e mettendomi lì sopra da bambino guardavo giù nella valle, c’era il vicino che arava questo campo con un vecchio trattore, forse un Ansaldo, e faceva tutto un giro sempre procedendo come per perimetri concentrici: a seconda di dove arrivava e della curva che faceva io sentivo cambiare il rumore del motore. Quando arrivava proprio sotto, sentivo il ferro, rrrrrrrr, e quando invece si allontanava e prendeva le altre curve, cominciava a muggire o mugolare come un bue o uno zebù, mmmmmm, era una cosa di armoniche che mi mandava in estasi.
A un certo punto il Figlio del popolo ricorda il languore di un’estate, uno struggimento perfetto, una solitudine totale in cui pensa a una ragazza che non c’è più.
PAOLO CONTE – La Padoan è proprio un bel personaggio.
MAURIZIO MAGGIANI – Ho cominciato a scrivere quando ho visto in una fotografia la figlia del ministro Padoan, bella, col megafono lanciato in aria: lì mi è tornata in mente la Padoan dei miei tempi, Saveria.
PAOLO CONTE – C’è un protagonismo in quella donna... Ma a proposito di languore, noi siamo dei maestri di quella roba lì… Forse gli inglesi e i francesi con lo spleen hanno detto qualcosa di simile.
MAURIZIO MAGGIANI – Dopo il primo matrimonio, ho passato la notte di nozze a piangere perché volevo essere con gli amici.
Languore al contrario.
PAOLO CONTE – Uno spleen pericoloso.
MAURIZIO MAGGIANI – La mattina dopo apro il balcone, era aprile, ero disperato, mi affaccio sul bar San Bernardo e piove, sotto c’è una macchina con qualcuno e sento venir fuori una musica: «Tutto intorno è pioggia pioggia pioggia e Francia…». Fossi morto in quel momento sarei stato beatificato, tutta la mia infelicità si giustificava così. Ero totalmente solo, spaesato e pieno di quella canzone. Dire spleen però sa un po’ di water che gocciola…
PAOLO CONTE – Già, è vero, c’è un po’ quel difetto lì, un problema sonoro.