La Lettura, 2 settembre 2018
L’età dell’oro borbonica ? Una pioggia di fake news
La Strada statale 110 che unisce Pizzo Calabro (Vibo Valentia) a Monasterace (Reggio Calabria) è un insieme di bellezze naturali, silenzi, leggende, ruderi e paesi spesso spopolati. Non esistono autostrade che colleghino la Calabria tirrenica a quella ionica: questa bretella è una serie infinita di curve che attraversano le Serre. Nel centro di questa area verde, a circa mille metri di altitudine, si trova Mongiana, un comune di poche centinaia di residenti. S’impiega un’oretta dall’uscita autostradale di Pizzo per raggiungere il borgo montano. Quest’ultimo e la Ss 110 si sono sviluppati in epoca borbonica. La strada serviva, infatti, agli stabilimenti siderurgici di Mongiana e Ferdinandea. Prima venivano utilizzate le mulattiere.
Mongiana era diventata un vanto e un fiore all’occhiello per il Regno delle Due Sicilie. Le condizioni sembravano favorevolissime: fiumi, miniere di ferro e alberi per la produzione del carbone. La fonderia venne creata nel 1771 e a questa fu affiancata la fabbrica di armi nel 1813. Il ferro prodotto era, all’epoca, di ottima qualità, ricevette vari premi e venne utilizzato anche per la produzione di ponti e materiale ferroviario. Nel 1864 il cuore della siderurgia calabrese cessò però di produrre e nel 1874 fu messo all’asta dal governo unitario. Erano ormai diminuite le commesse statali, i costi erano alti rispetto a produzioni estere ed era tecnologicamente sorpassato. Oggi esiste un interessante, sebbene ancora abbastanza scarno museo, altre strutture sono in via di riammodernamento mentre il sito dove sorgeva la fonderia è in attesa di inaugurazione da almeno un anno. Si spera che personale adeguatamente formato un giorno possa guidare i visitatori (8.500 lo scorso anno, compresi molti alunni delle scuole) in un percorso di sicuro interesse storico e archeologico.
Il paesino calabrese torna in auge nel 2010 con la pubblicazione di Terroni (Piemme), il controverso saggio revisionista del giornalista Pino Aprile che reinterpreta, bizzarramente e lacunosamente, la storia del Mezzogiorno. Riprendendo tesi neoborboniche e antirisorgimentali, il libro essenzialmente considera il processo di unificazione nazionale come una brutale invasione/annessione/colonizzazione nordista che sfrutta le ricchezze dell’ex Regno dei Borbone. Come ben sappiamo, la storia sia del Risorgimento (pur con tutti i suoi limiti) sia delle fonderie è ben diversa. Le riflessioni astoriche dei revisionisti del XXI secolo considerano, purtroppo, il Sud Italia come un unicum slegato dai processi economici e dalle innovazioni scientifiche occidentali.
Mongiana e siti simili non erano poli siderurgici globali. La produzione di rilievo era collocata in quell’Inghilterra che per prima aveva conosciuto la rivoluzione industriale. È infatti Oltremanica, e non sulle Serre calabresi, che si ritrovano Karl Marx ed Friedrich Engels per osservare una realtà socioeconomica in mutazione. In queste mal collegate zone della penisola sotto i Borbone non migliorarono neanche i metodi di coltura e nemmeno avvenne un simile processo di urbanizzazione e sviluppo del commercio. Inoltre, come avveniva in altri impianti, le condizioni degli operai nelle fonderie mongianesi non erano ideali. Giuseppe Maria Galanti, illuminista napoletano fedele ai Borbone, a fine Settecento osservava che la loro esistenza raramente passava i 40 anni e alcuni diventavano «ciechi o paralitici».
La buona notizia è che a un decennio di distanza da Terroni le pulsioni antirisorgimentali non hanno generato nessun nuovo paradigma storico né riabilitato un vecchio mondo mai esistito. Il dato negativo è che contribuiscono a rafforzare il vittimismo di chi addebita esclusivamente a cause esterne il sottosviluppo e la disoccupazione. Sospinto da una narrazione complottista e dai progenitori delle odierne fake news, esso ha plasmato ulteriormente il clima socioculturale che ha favorito il cataclisma elettorale dello scorso marzo.
Salvatore Lupo, storico dell’Università di Palermo, in maniera profetica definiva nel 2012 il filone neoborbonico come una sorta di leghismo meridionale: «La loro letteratura non è opera di storici, bensì di strati della popolazione che guardano al passato con le lenti del presente. Esattamente come i militanti del Carroccio fanno con il dio Po e con la simbologia dei Celti... ma a differenza di quanto avviene al Nord essa non trova una risonanza partitica rozza che tuttavia costituisce un segno di vitalità. Assistiamo alla fioritura di un micro-nazionalismo fondato sulla mistificazione e sulla manipolazione della storia, che va preso sul serio poiché in un periodo di crisi i suoi richiami potrebbero ridurre i fatti a carta straccia e favorire la diffusione delle menzogne a buon mercato».
Oggi la materializzazione del complottismo e del disprezzo verso tutto quello che sembra mainstream, verso la cultura, lo Stato e i politici corrotti, ha trovato la sua manifestazione partitica (anche) nel voto meridionale ai Cinque Stelle. Il risvolto culturale è evidente invece nell’accettazione dell’intesa con la Lega di Matteo Salvini, che camuffa l’odio verso il Sud con i nuovi nemici, insieme al solito Stato centrale usurpatore. La simpatia dell’universo grillino verso certe tesi è sempre esistita. Il blog di Grillo omaggiava il lavoro di Aprile: «Il libro dovrebbe diventare un testo di scuola. Da 150 anni ci raccontano la barzelletta del Sud liberato dai Savoia per portarvi la libertà, la giustizia, il progresso». Subito dopo le elezioni lo stesso Aprile legava il risultato alle sue teorie: «L’Italia non è mai stata unita, oggi è solo più chiaro... il saccheggio delle risorse meridionali è avvenuto dal 17 marzo 1861. Da allora non è cambiato nulla. Sono cambiati solo i trucchi con cui i governi ci nascondono questi furti… Il confine geografico del successo Cinque Stelle è esattamente quello dell’ex Regno delle Due Sicilie. Non è mica un caso... noi nel Mezzogiorno… adesso ci siamo rotti i coglioni».
Resta comunque qualche speranza. Dove si sono arenate le visioni nostalgiche dei neoborbonici, si scontrerà anche la politica dei Cinque Stelle: quali le prospettive per il futuro? Quali politiche per la disoccupazione giovanile? Anche le rovine hanno una funzione identitaria, che però ha senso solo per gli abitanti di Mongiana, non per storici amatoriali con poco rigore scientifico. Molti abitanti del borgo insultano, con educazione peraltro, Garibaldi e i Savoia. Tuttavia le preoccupazioni reali sono altre: il lavoro e la scuola che rischia di chiudere. Quest’area ha conosciuto soprattutto povertà ed emigrazione. Una fonderia o il reddito proposto dai pentastellati sono meri palliativi, sebbene Aprile e altri li considerino potenziali pietre miliari di una fantascientifica rinascita: «Se tantissimi usufruiranno di questa misura al Sud, non è certo per scelta loro. Ma perché dopo anni di saccheggio oggi si trovano in quella condizione... Forse con il reddito di cittadinanza i giovani potranno rimanere qui, senza essere costretti a trasferirsi al Nord».
In un saggio di economia del 1905, L’emigrazione dalla Calabria, Giuseppe Scalise sperava invece in un’unione tra le masse popolari e quella borghesia illuminata mai pienamente sviluppatasi per risollevare le sorti di una Calabria indebolita dagli abusi feudali, sfruttata dai potenti locali e dall’asservimento a questi ultimi, dalla mafia e dal clientelismo: «Dalla vittoria loro il nome calabrese uscirà redento e l’ideale compagine d’Italia armonica e compatta quale fu sognata da martiri e da poeti e quale fu salutata dai gloriosi dell’epopea, agli albori dell’unità». Un cambio di mentalità e un maggiore fervore democratico e innovatore sono necessari da sempre, certamente molto di più del famigerato ritorno dell’età dell’oro, pardon, del ferro neoborbonico.