La Lettura, 2 settembre 2018
Topolino, il filosofo del fare
«L’unica cosa che vogliamo davvero è una sfida». Così ebbe a dire Walt Disney all’artista della musica del film Fantasia, il maestro Leopold Stokowski. Poteva essere il motto anche della sua creatura Mickey Mouse – in Italia Topolino – che i giornali degli anni Trenta del Novecento definivano «un eroe internazionale, più noto di Roosevelt o di Hitler». Walter Elias Disney, nato nel 1901, aveva fondato nel 1919 un’agenzia pubblicitaria a Kansas City; e aveva cominciato a realizzare dei «corti di animazione». Con il fratello Roy aveva messo in piedi i «Disney Brothers Studios», dove si produceva la serie Oswald the Rabbit; ma quando per questioni legali i due fratelli erano stati costretti ad abbandonare il coniglio Oswald, era stato necessario trovare un sostituto. Avrebbe poi dichiarato Ub Iwerks, uno dei talenti dello Studio Disney: «Un corpo a forma di pera, la palla alla sommità, due gambe sottilissime. Se gli davate lunghe orecchie, era un coniglio. Con orecchie corte, un gatto. E se le orecchie pendevano giù, un cane. E con il nasino un po’ allungato, poteva diventare un topo». A Disney i topi piacevano: li lasciava balzare sulla sua scrivania. Ne aveva battezzato uno con il nome di Mortimer.
Walt realizzò i suoi primi topini, ma non ne era soddisfatto. Iwerks li ridisegnò. Nel 1928 restava forte l’emozione suscitata dal solitario volo sull’Atlantico, avvenuto l’anno prima, di Charles Lindbergh: il topo di Disney avrebbe fatto lo stesso per impressionare la sua fidanzata. Quando Walt lesse alla moglie Lilian la sceneggiatura, lei gli disse che trovava «orribile» il nome Mortimer. Lui le propose «Mickey», che dava un po’ l’idea dell’immigrato irlandese. «Suona meglio», gli rispose Lilian. Ma le testimonianze dei collaboratori sembrano piuttosto indicare che Mortimer era troppo lungo, mentre l’altro nome era più adatto per la sua brevità. «Mickey fu il prodotto di ardimento disperato e di calcolo: l’uno legato alla necessità di Walt di ricreare il suo santuario e l’altro all’attenzione per ciò che il mercato avrebbe accettato». Così Neal Gabler nella esaustiva biografia Walt Disney (Aurum Press, 2007).
Il cortometraggio Steamboat Willie debuttò il 18 novembre del 1928 al Colony Theatre di Broadway. Era il terzo esperimento di Disney con Mickey: il primo era stato L’aereo impazzito, di cui si è detto; il secondo Topolino gaucho, ma nessuno dei due era stato proiettato in pubblico. Questa volta Walt aveva scommesso sul sonoro, stanco delle «storie mute» che «si era dovuto sorbire» in passato. Parole e musiche «davano l’illusione di qualcosa che emanasse direttamente dallo schermo» (per dirla con Iwerks). Steamboat Willie durava circa sei minuti e aveva una trama esile, incentrata sulla capacità del Topo di trarre note musicali da qualsiasi oggetto. Ma la sua forza, nota Gabler, consisteva nell’essere stato «immaginato come un cartone animato sonoro in cui la musica era inestricabilmente legata all’azione».
Anche Topolino però rappresentava una componente del successo, non fosse altro per quella rotondità di forme (il volto, le orecchie, gli occhi) che – come ha poi notato il paleontologo Stephen Jay Gould – suggeriva una combinazione di giovinezza e maturità. Il nostro Topo aveva una personalità molteplice che, scrive Gabler, «poteva soddisfare un ampio spettro di esigenze, al prezzo però di essere perpetuamente sull’orlo dell’autodistruzione». Da questo rischio il Topolino cinematografico si salvò identificandosi sempre più con Disney stesso. Anni dopo Walt ribadiva che «finché ci sarà uno Studio Disney, ci saranno i cartoni animati di Mickey Mouse», perché «io non posso vivere senza di lui».
Invece Topolino è riuscito a sopravvivere alla morte del suo creatore, avvenuta nel 1966. Il suo segreto è proprio nella forza con cui trasforma le cose che lo circondano, come fa appunto in Steamboat Willie, rimanendo sempre incerto su quello che lui stesso è: una versione «topesca» di Charlot o un’incarnazione di Douglas Fairbanks nella comunità degli animali parlanti? In questo modo Mickey riesce a convertire la sua insicurezza di fondo in una forma affascinante di versatilità.
Se si dovesse cercare un’etichetta filosofica per Topolino, si potrebbe pensare a un pragmatismo tutt’altro che rozzo. Non aveva forse parlato William James della «volontà di credere»? Mickey è un tipo che non difetta di un certo realismo; non si illude che il mondo in cui viviamo sia pieno di bellezza, verità e giustizia. Questi sono obiettivi in pratica molto difficili da raggiungere. Eppure, non per questo dobbiamo rinunciare alla lotta. Per cambiare l’ambiente in cui ci tocca vivere occorre saper inventare delle alternative e cercare i mezzi migliori per tradurle in atto. È interessante notare come in tale prospettiva il Topolino del cinema si sia avvicinato per non pochi aspetti al successivo Topolino dei fumetti: come l’eroe che abbiamo conosciuto attraverso gli «Albi d’oro» editi dalla Mondadori nel secondo dopoguerra, Mickey non è sempre un vincitore, ma sa perdere con dignità. Agli inizi era un tipico giovanotto di campagna predisposto alla burla, ma anche all’impegno più rigoroso. Diventato poi cittadino di una metropoli dell’Ovest, aveva fatto suo un certo scetticismo pratico: mai fidarsi troppo delle apparenze, nella «buona società» non solo formata da un campionario dei personaggi più eleganti, ma anche pervasa dalle più tenaci forze del male, come quelle impersonate dal suo nemico numero uno, il violento e perfido Pietro Gambadilegno. Topolino era anche un po’ positivista: lavorava con ipotesi sempre controllabili nei fatti, e diffidava di situazioni troppo impregnate di metafisica. In tutto questo era andato oltre la stessa concezione del progresso come superamento degli ostacoli che aveva animato Disney.
Certamente la filosofia di vita del Topo era quella di non arrendersi mai, anche e soprattutto di fronte alle situazioni più minacciose e caotiche. Come ha osservato Gabler, «l’esser sempre capace di reinventarsi la realtà era la vera matrice del suo potere: Topolino vede e ode cose che gli altri non colgono. Ed è in questo modo che rende suo il mondo». Ma poiché cercar di eludere i vincoli può essere visto dai più conformisti come una forma di insubordinazione, non ci deve troppo stupire che Topolino (anche se in più di un’occasione collabora con la legge) sia stato considerato un pericoloso individualista, una sorta di anarchico impenitente.
I suoi corti, prima in bianco e nero e poi anche a colori, finivano spesso con un Topo sorridente, nonostante tutte le difficoltà attraversate. Si pensi all’episodio che lo vede protagonista nel film Fantasia del 1940: Mickey, «apprendista stregone» vorrebbe impadronirsi dei segreti del mago di cui deve tener pulito lo studio. Il Topo approfitta dell’assenza del padrone per scartabellare nel libro degli incantesimi e ordinare alla scopa di lavorare al suo posto, mentre lui si concede un po’ di riposo. Si addormenta, sogna. Immagina di dominare i quattro elementi della tradizione classica. «La terra, su cui è appoggiato; il fuoco, cioè le comete che bruciano in cielo; l’aria, ovvero il vento che agita le nuvole; l’acqua, cioè le onde dell’oceano. Topolino usa i suoi poteri per controllare la natura più primordiale, e lo spettatore si trova davanti a uno spazio senza confini», nota Erica Gallesi nel libro Da Pigmalione a Pinocchio (Jouvence, 2017). Quella di Topolino è una visione degna di Giordano Bruno, il teorico degli infiniti mondi sparpagliati in un universo sconfinato. Bruno, però, aveva pagato questa straordinaria cosmologia finendo sul rogo. Topolino, risvegliatosi, rischia invece «la morte per acqua», poiché la scopa si rifiuta di obbedirgli e continua a versare acqua nella grotta. Lo salva il ritorno del mago, che rimette tutto a posto e, con un poderoso calcione nelle parti posteriori, spedisce il suo maldestro apprendista… a stringere sul podio la mano del maestro Stokowski.
Visto via via come un nostalgico del passato o come un tipo proteso verso il futuro, come un ribelle anticonformista o come un difensore dei «valori americani», come un conservatore o come un individualista sovversivo, il Topolino del cinema (non meno di quello dei fumetti) è stato capace di entrare a far parte della «cultura ufficiale», portando con sé gli spettatori di tutto il mondo. Che importa allora che la sua personalità si riveli quasi indefinita? Non è un difetto, ma una risorsa.