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 2018  settembre 02 Domenica calendario

Migranti attraverso il tempo, in un altrove che sarà casa

In un pomeriggio di mezza estate nel quartiere alla periferia di Bologna dove sono nato è stato aggredito un pensionato. Nel linguaggio del verbale di polizia verrà da qui definito la vittima. E dunque: «Scendeva dall’auto parcheggiata davanti al circolo ricreativo dove intendeva recarsi e apriva lo sportello posteriore per recuperare le due stampelle a cui necessariamente si appoggia per procedere. In quel momento lo affiancava un giovane che gli strappava di mano le chiavi dell’autovettura e si allontanava di corsa. La vittima, sorpresa, urlava. Dal balcone al secondo piano del vicino edificio, una donna, di seguito identificata, scattava con il cellulare una foto all’aggressore in fuga. L’immagine veniva poi trasferita sul dispositivo di uno degli agenti intervenuti. La vittima insisteva per appostarsi munito di stampelle nei pressi della vettura e attendere il ritorno dell’aggressore per coglierlo sul fatto e consegnarlo alla giustizia. Veniva convinto a raggiungere il più vicino commissariato e sporgere denuncia mentre l’auto rimaneva sorvegliata. Riaccompagnato sul posto, individuava il malintenzionato nascosto dietro una siepe. Le sembianze corrispondevano all’immagine dello scatto e la pattuglia procedeva quindi all’arresto, restituendo le chiavi della vettura al legittimo proprietario». 
Le origini e le intenzioni
Di quest’ultimo conosco le generalità, perché è mio padre. L’aggressore, riferisce lui, era «probabilmente straniero». La donna sul balcone, altrettanto «probabilmente italiana». Non categorizza per questo: in una circostanza analoga, entrando nel palazzo, era stato assalito da un ragazzo italiano e in un’altra ancora sostenuto da un vicino albanese. Determinanti non sono le origini, ma le intenzioni e le due cose non appaiono necessariamente collegate. Il punto è che questi episodi vengono raccontati come normali accadimenti quotidiani per un ottantenne, a dimostrazione che in Italia oggi la senilità è diventata molto più avventurosa della gioventù, esce stabilmente con il rischio e flirta con la rovina. Sulla pista di ogni epoca ballano almeno quattro generazioni: due fanno la storia e due, quella più giovane e quella più vecchia, la subiscono. In genere ci si preoccupa, a parole, soltanto della prima, chiedendosi retoricamente che mondo erediterà, senza domandarsi che mondo l’altra stia per abbandonare, pur abitandolo ancora, con parziali responsabilità riguardo al presente e quasi nessuna riguardo al futuro. 
Ho vissuto in quel quartiere ai confini della città la prima metà della mia vita. Gli edifici, benché di recente costruzione, hanno i portici per ricordare quelli del centro storico, ma è l’ultimo legame con la tradizione. Molte cose sono cambiate mentre ero altrove e mio padre assisteva al mutamento, avvenuto con curiosa specularità. Nel periodo che ho trascorso a Beirut il negozio di abbigliamento è stato acquistato da un commerciante libanese. Seduti nella sua piazza di provenienza abbiamo discusso di come la sua mentalità potesse inserirsi nel nuovo ambiente. Gli consigliai di parlarne con il barista locale, che conosceva tutto e tutti. Mentre io ripartivo, direzione Pechino 2008, quel bar è stato acquistato da una famiglia cinese, sempre sorridente e gentile. Gli avventori ai tavoli ora sono quasi tutti anziani, qualcuno accompagnato da giovani assistenti, comunemente chiamate badanti. Figli come me sono andati lontano e girano il mondo, cosa che ai padri riesce senza spostarsi, venendo in contatto con rappresentanti di Ucraina, Moldavia, Perù, che si avvicendano scontando le improvvise scomparse dovute a migliori offerte o ai peggiori innamoramenti. Tra vent’anni, forse soltanto dieci, nessuno parlerà, o capirà, una parola di dialetto, le ricette si fonderanno in un menù senza radici e i citofoni sembreranno il registro ingressi delle Nazioni Unite. 
Essere il diverso
Nel mio viaggio provo perfino una sorta di piacere quando mi rendo conto di impersonare il diverso, l’unico senza occhi a mandorla nella metropolitana asiatica o il bianco sul pontile in Africa, perché questo mi aiuta a capire che l’altro non è necessariamente pericoloso, se quell’altro posso essere io. Ma in questo spicchio di città, una città molto meno aperta di come è stata raccontata, per giunta invecchiata e sfinita, come si può convivere con il diverso o avviarsi a esserlo?
 Nuovi territori
Credo di aver trovato la risposta nella frase di un romanzo. Lo ha scritto il pachistano Mohsin Hamid, si intitola Exit West. La frase è: «Siamo tutti migranti attraverso il tempo». Ogni generazione invade il territorio della precedente con un carico di usi e costumi in precedenza ignoti. A questi padri e nonni arroccati nelle periferie del terzo millennio abbiamo messo in mano telefoni con suonerie aumentate per imporre loro la reperibilità e due telecomandi per accendere il televisore che trasmette un solo spettacolo a reti diversificate. Noi per primi abbiamo diffuso una nuova lingua con termini presi in prestito da troppe altre. Abbiamo criticato e stravolto la loro morale, corretto o annullato la religione, deviato il rettilineo che immaginavano davanti a sé. Sono andati in esilio senza fare un passo. 
Il futuro di chiunque è una terra incognita abitata per lo più da stranieri. O presunti tali. I migranti nello spazio e quelli nel tempo possono condividere fatiche e sfide, memoria e sofferenza. Nel tinello di un appartamento ottantenni italiani rievocano ritualmente la miseria dell’infanzia, i dolori di una guerra, la fine di una dittatura e l’illusione a seguire. Quarantenni dell’Europa Orientale o del Nord Africa sanno esattamente di che cosa stanno parlando e annuiscono gravi. Il viaggio della vita ha segnato entrambi e a entrambi ha insegnato poche certezze. Tra queste: la giustizia va invocata e non fatta, uomini forti e alleanze infauste provocano soltanto sciagure e ogni giorno a venire sarà una battaglia per la sopravvivenza, ma anche un’ulteriore conquista.