La Stampa, 2 settembre 2018
Village voice, chiude il giornale che raccontò l’America dei diritti
Il senatore John McCain è morto, la regina del soul Aretha Franklin è morta e ora anche «The Village Voice» se ne va. Chiude il giornale underground di New York, fondato nel 1955 dallo scrittore Norman Mailer, con Dan Wolf e Ed Fancher, in un bugigattolo al Greenwich Village, allora quartiere bohémien della metropoli. Nella prima pagina della rivista, stampata sempre su carta da quotidiano, la storia di un camionista del Village che querela la possente Columbia University per 50.000 dollari. Accanto una crociata dei musicisti per i loro diritti. In breve «The Voice», come si chiamava nelle cantine dell’avanguardia, diventa voce di una generazione. Inquieta nell’America bonaria del presidente Eisenhower, serena nel boom economico del dopoguerra ma tormentata da quel che non sembra più aggiustarsi, famiglia spezzata, alienazione delle anime, oppressione razziale e sessuale, conformismo.
Scrivono per «The Voice» grandi della letteratura, come il poeta fascista Ezra Pound, detenuto in un sanatorio per pagare la collaborazione con Mussolini, ma di cui un altro giovane collaboratore, il poeta beat Allen Ginsberg, chiede la liberazione tracciando sui muri il polemico graffito «Ez for Pres», Pound presidente. I fumetti sono affidati a Jules Feiffer, che finirà per vincere un premio Pulitzer, slanciate silhouette di danzatrici per commentare i fatti del giorno, che Oreste del Buono importa sullo storico Linus. I critici insegnano cosa sia l’arte nuova ai borghesi di Park Avenue, per il cinema Andrew Sarris parla di Stan Brakhage e dei suoi esperimenti e elogia l’imberbe Jack Nicholson in «Cinque pezzi facili» di Rafelson. Nel 1958, baffuto, occhialuto, arriva un clarinettista jazz fallito «ero troppo scarso», un ragazzo ebreo che ama la musica dei neri, Nat Hentoff, «Duke Ellington mi adottò come un figlio...» e in breve popolarizza il jazz nel ceto medio. Mingus, Parker, Coltrane, Davis suonano la colonna sonora del «Village», che vede affluire con i ribelli, Bob Dylan e la sua fidanzata Suze Rotolo, gli intellettuali affermati. Joan Baez chiede a un giovane manager italiano di Olivetti, Furio Colombo, 500 dollari in prestito per produrre le prime canzoni di Dylan, «Blowin in the wind» diventa inno di piazza.
Il «Village» è «festa mobile», come la Parigi per Hemingway trenta anni prima. Si discute delle marce per la liberazione dei neri al Sud, primi a partire giovani attivisti ebrei, alcuni dei quali cadranno sotto le pallottole del Ku Klux Klan, si scrivono editoriali contro la speculazione edilizia (bersaglio fisso la famiglia Trump), poi in cantina a sentire debuttanti come i fratelli Marsalis e infine ai party, whisky, spinelli, poi anfetamine, Lsd, coca.
La lista delle firme si allunga, lo scrittore Henry Miller, il poeta e.e. cummings, l’artista nero James Baldwin, il drammaturgo Tom Stoppard, che sfotte l’ipocrisia nella pièce «Rosencrantz e Guildenstern sono morti». Avere sottobraccio nella metro il «Voice» è distintivo chiaro, ad amici e nemici. Quando, nel 1969, la polizia perquisisce uno dei bar gay del Village, lo Stonewall, per la prima volta i clienti si ribellano e si battono, lanciando il movimento per i diritti gay. The «Voice» è in prima linea, un cronista barricato nel bar con i dimostranti, ma non capisce la novità, parla di «storie di f.», insulta i presenti, la vecchia sinistra snob spiazzata. L’aria cambia, «The Voice» diventa il giornale dei gay, poi il mesto declino, cambi di proprietà, licenziamenti, un tentativo di free press fallito. A New York i russi comprano attici di lusso nel West Side che fu della Story di Bernstein, giovani, lavoratori, artisti son cacciati in esilio in periferia. McCain è morto, Aretha è morta, addio a «The Voice», l’America ha le battaglie del presente da vivere.