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 2018  settembre 02 Domenica calendario

Intervista a Maurizio Nannucci

Di che storia si compone l’uomo che ha dato una nuova prospettiva artistica alla luce, imprigionandola in quel grande fenomeno industriale che è il neon? Maurizio Nannucci vive a Firenze e già qui il contrasto sembra forte tra una città segregata nel suo strepitoso Rinascimento e un signore che inventa e prova a imporre nuovi codici per la bellezza. Ma si può parlare di bellezza guardando un’opera di Nannucci, come lo si farebbe davanti a un Brunelleschi o un Michelangelo? «La bellezza è una nozione che va maneggiata con cura. Diffido di coloro che continuano a farne il controcanto. Cos’è bello o brutto francamente non so » , dice mentre mi fa visitare lo spazio esiguo e spoglio di "Base": «Qui parecchi anni fa creammo un piccolo mondo libero dalle ansie del mercato dove ogni artista poteva misurarsi con il proprio credo e realizzare ciò che riteneva più consono alla propria aspirazione. Non so se abbia funzionato. Ma il fatto che questo luogo esiste da più di 40 anni, vuol dire qualcosa». Nannucci mi invita a visitare il suo studio che è alla periferia di Firenze, in direzione di Coverciano: archivio, opere, libri, fotografie. Quasi un bricolage della memoria che si diverte a tenere unito. A dargli un senso. Anche se l’arte di questi anni un senso non ce l’ha.

Che cosa le piace del suo lavoro?
«La pratica, che non è solo prassi cioè lavoro attraverso l’esperienza. Ma un modo di servirsi di linguaggi diversi, di suggestioni che impattano sulla mente e la mano trasforma».
È questo che fa un artista oggi?
«È ciò che faccio io. Inoltrandomi in un territorio che solo parzialmente conosco e che devo pazientemente ricostruire. Forse in questa attesa ha contato molto mio padre».
Suo padre perché?
«Come cartografo lavorava per l’Istituto geografico militare. Disegnava carte geografiche, specializzato in riprese aeree dal pallone aerostatico. Difficile per un bambino come me resistere all’idea di un mondo visto dall’alto. Ma cosa rappresentavano quei segni, quei confini, quelle linee, quei punti che attraverso una mappa davano vita a un territorio?» Erano una rappresentazione geografica.
«Ma quanto fedele, convenzionale, oppure fantastica? Da un racconto di Borges, tratto da Finzioni, ricavai la convinzione che il mondo reale che un cartografo restituisce è al tempo stesso il luogo più fantastico che si possa immaginare. Non solo la descrizione della Terra ma, in un certo senso, la sua appropriazione poetica. Avevo 18 anni ed ero affascinato dal disegno e dalla tecnologia. Conobbi allora Pio Manzù, figlio di Giacomo. Pio era uno straordinario designer. Innovatore e visionario. Sotto la guida di Thomas Maldonado aveva studiato alla scuola di Ulm. Fu un astro che brillò troppo in fretta e si spense altrettanto rapidamente. Non aveva trent’anni quando morì in un incidente stradale».
In che senso fu importante per lei?
« Mi propose di fare un’esperienza alla Ulm. Fui ammesso, con una borsa di studio, e trascorsi un anno a studiare le nuove visioni del designer. In seguito, nel 1960-61, passai due semestri all’Accademia di Berlino».
L’anno in cui fu alzato il muro?
«La gente vide in quel Muro qualcosa di drammaticamente epocale».

Che cosa non andava?
Famiglie separate, persone che non si sarebbero più riviste. Ma soltanto dopo avrei compreso gli effetti di quella decisione. Quanto a me tornai in Italia con un buon bagaglio di conoscenze tecniche ma pieno di dubbi».
« Non avevo ancora un centro espressivo. Mi appassionai alla musica elettronica e al teatro sperimentale, nella convinzione che i linguaggi della pittura e del disegno fossero insufficienti, perfino fuorvianti, ai fini del discorso che mi proponevo. Mi convinsi che l’arte, qualunque cosa volesse significare, non poteva più essere una mera consacrazione del passato. Alle problematiche di taglio storico preferii l’azione diretta».
Erano gli anni in cui si respirava il clima situazionista.
«Il situazionismo aprì delle strade. Conobbi Guy Debord, che tra l’altro aveva deciso di vivere in Toscana. Con lui avrei realizzato una mostra nel 1978 sui documenti del situazionismo».
In che circostanza lo conobbe?
« Fu un incontro del tutto casuale in una vineria in San Niccolò, non lontano da "Base". Vidi un uomo robusto, dalla faccia larga, che beveva in continuazione. Cominciammo a chiacchierare e a un certo punto si presentò: sono Guy Debord. Non si reggeva in piedi, lo accompagnai fuori dal locale. Ma aveva preso una tale ciucca che non ricordava in quale albergo fosse. Camminammo per tutta la notte. Fu allora che mi venne l’idea della mostra che avrei realizzato qualche anno dopo, come omaggio a un personaggio straordinario».
Condivideva l’idea situazionista che l’arte andava in qualche modo superata?
« Su quel punto, indubbiamente ideologico, scaricai con forza le mie aspettative. Onestamente non posso dire se l’arte andasse o meno superata, certo occorreva ripensarne la riconoscibilità. In quegli anni erano accadute molte cose e tra queste c’era stato per me l’incontro con la poesia concreta».
Concreta in che senso?
«Fu Eugen Gomringer, un boliviano di madre tedesca che, verso la metà degli anni Cinquanta, creò con le sue "costellazioni" e in seguito con gli " ideogrammi" un tipo di poesia che venne chiamata concreta, nel senso che ai versi furono tolti tutti i contenuti nella convinzione che il linguaggio dovesse essere strappato alla quotidianità per dilatarsi spazialmente, come se le parole fossero degli oggetti. In Italia l’operazione fu rilanciata da Carlo Belloli, un poeta tardo futurista che aveva una rivista legata alla Biennale di Venezia. Belloli cercava giovani artisti da lanciare. Fu a lui che mostrai i miei primi Dattilogrammi ».
Cos’è un Dattilogramma?
«Una elaborazione di testi/immagine basati su nuove sintassi di tipo geometrico spaziale. Componevo lettere o parole, al limite anche una sola, su un foglio, monocromo o a più colori, battuto a macchina. Adoperavo una Olivetti 22. Lavorai a questo alfabeto visivo continuativamente tra il 1964 e il ’65. Per me era un prendere le distanze dalla pratica pittorica e del disegno. Creando immagini mentali che andassero oltre i limiti del rappresentato. Volevo esprimere il valore simbolico e spaziale della parola. Quando ho iniziato non avevo idea che i miei Dattilogrammi fossero già poesia concreta».
Non c’era molto velleitarismo concettuale?
«Tutta l’arte concettuale è in un certo senso velleitaria. Nel Novecento, a un certo punto, accade qualcosa da cui era difficile tornare indietro».
Si spieghi meglio.
«In ambiti diversi, con linguaggi differenti, il discorso si radicalizzò nei fatti più che nelle intenzioni. Quanto a me non ho mai avuto il problema di definire cosa fosse l’arte contemporanea e non ho mai pensato di andare contro una tradizione. Volevo semplicemente rendere percepibili le quattro componenti di un’opera: il testo, il colore, la luce e lo spazio».
Niente di nuovo sotto il sole.
« Invece c’era parecchio di diverso, anche se alla fine trovo vano dire questo è moderno, questo è contemporaneo, questo è antico. Davanti a un’opera di Burri avverto gli stessi problemi che avrei nel guardare Caravaggio. Burri è un nostro contemporaneo? Mi pare irrilevante ».
Perché?
« Perché se Caravaggio dovesse dipingere oggi lo farebbe come Burri. Entrambi esprimono qualcosa che va al di là del tempo ed è molto vicino alla materia pittorica».
Eppure nell’arte qualcosa è accaduto.
«Certo che qualcosa è successo. Sono cambiate le sensibilità, i codici di accesso al reale, la moltiplicazione dei linguaggi. Ma tutto questo non mi spinge a nessuna contrapposizione storica. Almeno, non nel senso in cui la teorizzavano le avanguardie, come scontro tra il vecchio e il nuovo. Quando Lucio Fontana, di cui per un certo periodo sono stato assistente, inferse sulla tela i suoi celebri "tagli" non pensava minimamente di teorizzare una rottura. La praticò».
Con quali effetti?
« Drammatici per l’arte. Portò a compimento la rottura del patto mimetico. Cosa sono i suoi "tagli" se non l’impossibilità di rappresentare? ».
In che anni gli è stato vicino?
« Nella seconda metà degli anni Sessanta. Era un uomo cordiale, per certi versi magico, gli piaceva la vita e morì nel ’ 68, quando le tensioni del discorso artistico si tradussero in aspettativa politica».
Dica pure in aspettativa ideologica.
«Per molti artisti la tentazione fu forte. Nel mio percorso non volevo indicare una strada, bensì affrontare delle necessità. Il che non mi ha impedito di avvertire un forte legame con altri artisti».
Con chi in particolare?
« Negli anni Sessanta le vicinanze erano con Paolini, Fabbri, Boetti, Kounellis. Talvolta ci scambiavamo dei lavori. Si tratta di una pratica aperta e di un vissuto abbastanza comune. Lo stesso che ho condiviso con James Lee Byars, Joseph Kosuth, Bill Viola, Sol LeWitt. È in questo contesto che è maturata l’esperienza di "Zona" e poi di "Base" a Firenze».
Maturata in che modo?
«Alla fine degli anni Sessanta un piccolo collettivo di artisti di Firenze, tra cui io, decise di creare uno spazio espositivo no profit, pubblicammo anche un giornale. Da questa prima esperienza nacque "Zona" nel 1974. Fu un vero e proprio laboratorio internazionale che produsse fino al 1984 centinaia di eventi e di mostre».
Poi che accadde?
« Da " Zona", che esaurì la sua funzione, nacque " Base", uno spazio di artisti per artisti. L’idea era ed è tuttora di mettere a confronto, fuori da ogni convenzione, generazioni diverse. Le confesso un piccolo vizio: quando trovo un’opera che mi piace è come se mi scegliessi un compagno di viaggio con cui fare un pezzo di strada assieme».
Firenze si prestava a questa sperimentazione? In fondo per gli anni di cui si parla le piazze fondamentali erano Roma, Milano, forse Napoli.
« Qui da noi c’era stato un bel fermento: soprattutto sul piano dell’architettura radicale e della musica elettronica. Certo siamo una piccola città. Ma quello che abbiamo realizzato, nella pura gratuità, difficilmente si sarebbe potuto ottenere in città come Roma, Milano o Napoli decisamente inserite nel circuito delle gallerie».
La sua funzione qual è stata?
«Quella di realizzare progetti in cui ciascuna opera è importante per la sua centralità ma anche per la capacità di essere in stretto collegamento con le altre. Da sempre la mia ricerca — che si avvale di una casa editrice che ho creato, dei libri di artista che pubblico, dei dischi che realizzo e dell’archivio ricco di documenti — è aperta ai diversi linguaggi e si realizza in un percorso ormai riconoscibile: lavori fotografici, proiezioni di diapositive, opere sonore, multipli e naturalmente i neon».
Proprio i neon le hanno dato riconoscibilità e successo: dal Maxxi di Roma ai più grandi musei internazionali.
«Non parlerei di successo che come sa è qualcosa di effimero. Preferisco vedere i neon come la conseguenza o l’evoluzione di una sperimentazione nata con i Dattilogrammi. La prima volta che l’ho usato è stato nel 1967. I neon uscirono dallo "white cube" museale, invasero lo spazio pubblico e interferirono con l’architettura. Credo di essere stato un pioniere di questa pratica».
Qualche anno prima Joseph Kosuth aveva già realizzato alcuni neon. Si sente il risultato di quella esperienza?
«Nessuno nasce con un gesto davvero originario. Oggi a un artista non si chiede l’originalità. Diciamo pure il feticismo dell’unicità! Non so bene cosa voglia dire " creare" e non mi sento granché creativo. Ci sono opere che produco e che mi emozionano, questo sì e credo che il mio lavoro sia un rispecchiamento continuo. Kosuth realizzò i primi neon quasi in contemporanea con alcuni tentativi dell’arte povera. Credo che quell’esperienza gli derivasse dalla suggestione per il potere della pubblicità. A me viene dal potere della parola».
Quando dice rispecchiamento a cosa allude?
«È un vedere quello che gli altri vedono ma, al tempo stesso, un bisogno di identità. Si tratta di un gioco sottile tra lo sguardo dello spettatore, categoria indifferenziata, e quelle dell’artista, starei per dire altrettanto indifferenziata!» Ma se un artista non crea che fa?
«La creazione mi pare rinvii a un’immagine teologica dell’artista. Una posizione oggi francamente indifendibile. Che fa? Cosa faceva Piero Manzoni con il suo barattolo di merda? O Fontana con i suoi proverbiali tagli? Al di là della provocazione — che ha sempre creato scosse nella storia dell’arte — mostra o decreta qualcosa che ancora oggi si stenta ad accettare: la morte o la scomparsa dell’autore. Non dell’arte, ma dell’artista. Forse, si dovrebbe ricominciare da qui».