sull’Himalaya: «Non ho più mangiato carne da allora. Per uno come me, che dà un significato forte al cibo, è un gesto quasi rivoluzionario».
Una rivoluzione che passa per un ripensamento del rapporto con gli altri esseri viventi?
«Sì. Un rapporto che, nel mio caso, è iniziato a cambiare quando mi sono trasferito in montagna. Qui gli animali li hai tutti intorno, un’esperienza difficile da replicare in città. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto di un’altra enorme differenza che esiste tra il vivere in grandi centri e vivere in zone rurali. C’è un certo estremismo nella posizione dei vegetariani e dei vegani che appartiene alla dimensione urbana».
Chi vive in città ha un approccio troppo radicale?
«Rispetto e comprendo la scelta di un "cittadino" di diventare vegano o vegetariano. Apprezzo anche un approccio estremista alle cose, perché mi riporta a un autore che amo molto, Henry David Thoreau. Ma non posso dimenticare di aver trascorso metà della mia esistenza in una zona destinata al pascolo. Un’attività che non è solo economica. È la cultura profonda di questi luoghi e non potrebbe mai essere diversamente. Non possiamo sostituire i pascoli con dei campi di soia».
Può esistere una montagna in versione "veg"?
«Quando penso all’importanza di proteggere l’autenticità della vita montana divento meno estremista. Non me la sento di dire "diventiamo tutti vegani" quando i miei vicini, i miei amici, vivono di allevamento. E non certo intensivo. C’è chi ha in tutto venti mucche, che passano gran parte della vita all’aperto. Solo vivendo in campagna o in montagna ti rendi conto di che cosa significhi convivere con gli animali. È una cultura viva, che ci appartiene. Sono altri i problemi urgenti».
Quali sono le questioni davvero rilevanti?
«Trovo intollerabile che in un negozio di montagna si vendano prodotti industriali. Bisognerebbe soffermarsi più sulla sostenibilità, su come viene prodotto il cibo. Quanto inquiniamo? Quante risorse consumiamo con la nostra alimentazione? Rispetto la scelta di uno che qui, sui monti, uccide un vitello all’anno e ne consuma la carne per tutto l’inverno — e succede — più di quella di un vegetariano che mangia cibo industriale».
In "Tutte le mie preghiere guardano verso ovest" ha raccontato il punto di vista degli americani.
« Il loro rapporto con il cibo è terrificante. Nei supermercati di New York una bistecca costa meno di un chilo di mele e anche noi rischiamo di andare in quella direzione. La civiltà urbana si evolve verso un punto in cui non c’è più nessuna cognizione di come il cibo viene prodotto. Le persone non sanno più neanche cos’è la carne».
Nell’universo della montagna c’è anche la caccia. E ci sono grandi scrittori che l’hanno celebrata, come Mario Rigoni Stern.
«Per lui il bosco era qualcosa da coltivare, da curare: si abbattono alcuni animali così come gli alberi, perché l’ecosistema sia sano. Da questo punto di vista mi sento molto distante da lui, è un autore di un’altra epoca. Quel rapporto tra uomo e natura non può più esistere. Però, anche in questo caso, non mi convincono posizioni che arrivano da luoghi troppo distanti dal mondo rurale. Dal punto di vista della città sembra crudele tutto: la caccia, l’allevamento. Se in mezzo ai boschi ci vivi, la prospettiva cambia, anche per quanto riguarda la percezione di come dovrebbero vivere gli altri».
Che significa, allora, essere vegetariano?
«È semplice: a un certo punto della mia vita ho iniziato a pensare che fosse sbagliato mangiare animali. Non voglio essere responsabile della loro uccisione. Ma è una scelta privata. Diverso è quello che auspico per la collettività. Mi piacerebbe senz’altro un mondo di vegetariani, ma sarebbe più importante che le persone facessero più attenzione a quello che mangiano, a come viene prodotto il cibo».