la Repubblica, 2 settembre 2018
La mega fattoria degli animali
Cecile Steele non poteva sapere che quella sua telefonata avrebbe cambiato per sempre le abitudini alimentari della popolazione mondiale. In un giorno di primavera del 1923 questa agricoltrice di Ocean View, nel Delaware, ordina cinquanta pulcini per una piccola produzione di uova. La linea è disturbata, il fornitore sente male e le invia 500 capi. Steele non sa che fare, vorrebbe restituire il carico. Ma poi ha uno di quei guizzi che cambiano il corso della storia: chiude i pulcini in un capannone, nutrendoli con mais e integratori alimentari. Con suo grande stupore, questi sopravvivono e crescono. Passati due mesi, li mette in vendita e vanno a ruba. Decide così di ordinarne altri mille. Poi diecimila. Nel 1928, ha una produzione che raggiunge le 26mila unità. Imprenditrice per caso, Cecile Steele è la fondatrice di quella che ormai riteniamo un’industria imprescindibile: l’allevamento intensivo.
Nei 95 anni che ci separano dall’intuizione della contadina del Delaware, l’allevamento industriale ha conosciuto uno sviluppo straordinario. Inventato per i polli, il modello è stato applicato ai tacchini, alle mucche, ai conigli, ai maiali. Oggi sul pianeta vengono allevati 20 miliardi di animali. Calcolati su base annua, perché i loro cicli di vita sono spesso di pochi mesi, diventano 70 miliardi. Una cifra gigantesca, che continua a crescere in modo esponenziale:” Se il consumo di carne segue il trend attuale, nel 2050 avremo sul pianeta 120 miliardi di animali l’anno”, analizza Tony Weis, professore all’università di Western Ontario in Canada e autore di importanti libri sui costi ecologici della carne industriale. Weis sostiene che l’unica opzione che abbiamo davanti è invertire quella che lui definisce la “meatification”, cioè il continuo incremento di utilizzo di proteine animali da parte della popolazione mondiale. La riduzione sostanziale del consumo di carne o la scelta vegetariana tout court ristabilirebbero gli equilibri e permetterebbero di risparmiare risorse che sul pianeta sono sempre meno abbondanti.
L’allevamento intensivo di per sé permette di produrre carne a basso prezzo. Ma questo prezzo è davvero così basso come viene percepito? Nel computo di quello che paga il consumatore non vengono calcolati i costi ambientali, sanitari e sociali della produzione. Non vengono indicati gli effetti nocivi scaricati sulla società nel suo complesso. Lontano dall’immagine bucolica della mucca che pascola nei campi, l’allevamento somiglia sempre di più a una fabbrica. Gli animali diventano componenti industriali, da far crescere alla massima velocità e poi scomporre per un consumatore che deve sapere il meno possibile sull’origine di ciò che mangia. Sono veri e propri animali- macchina, programmati geneticamente per ingrassare tutti allo stesso modo ed essere macellati tutti allo stesso grado di crescita.
L’invenzione di Cecile Steele rappresenta una cesura storica paragonabile all’inaugurazione della ferrovia per la rivoluzione industriale nell’Inghilterra vittoriana. L’allevamento intensivo modifica definitivamente le relazioni nelle campagne, stravolgendo cicli produttivi storicamente cristallizzati. Fin dai suoi albori, nell’antica Mesopotamia, la pratica di allevare animali è stata intimamente connessa all’agricoltura: gli animali pascolavano sui campi e il loro letame veniva usato come concime per rivitalizzarli. Ogni elemento era parte di un sistema integrato che si rigenerava da sé, riducendo al minimo gli scarti. Un esempio perfetto di” economia circolare”. L’allevamento intensivo è invece un caso classico di” economia lineare”. Produce grandi quantità di scarti e ha bisogno di carburante, come un normale sistema industriale. Gli animali sono alimentati con mangimi composti da cereali e semi proteici, che devono essere coltivati ad hoc. L’agricoltura, già legata in modo sinergico all’allevamento, diventa a esso ancillare: oggi un terzo delle terre arabili è utilizzato per produrre mangimi destinati agli animali allevati intensivamente. Con il prospettato aumento del consumo di carne a livello mondiale, nel 2050 questa cifra potrebbe raggiungere i due terzi. Gli animali chiusi nei capannoni sono nutriti con alimenti provenienti dall’altra parte del pianeta. Ogni anno, circa 150 milioni di tonnellate di soia sono prodotte in Sud America e destinate alla zootecnia, principalmente in Cina e in Europa. Intere aree di savana tropicale e di foresta amazzonica sono scomparse per fare spazio a grandi monocolture di soia.
Gli scarti sono un altro problema. Il letame, che una volta era una risorsa da utilizzare, diventa un resto da smaltire: le alte concentrazioni del bestiame in spazi ristretti rendono i liquami non più utilizzabili. Oggi le deiezioni animali sono un fattore altamente inquinante: penetrano nelle falde e compromettono gli eco-sistemi acquatici mediante la loro alta concentrazione di azoto, fosforo e potassio. Nel Golfo del Messico si è formata una” dead zone”, causata dai resti reflui degli allevamenti e dai pesticidi e fertilizzanti utilizzati nelle piantagioni di mais e soia per la zootecnia. 22mila chilometri quadrati di mare in cui non cresce essere vivente. Il Po, nel cui bacino sono concentrati molti allevamenti, è uno dei fiumi più inquinati d’Europa.Chiusi in capannoni sovraffollati senz’aria né luce, gli animali-macchina tendono ad ammalarsi. Ed è per questo che vengono trattati in modo preventivo con massicce dosi di antimicrobici. Oggi, il 70 per cento degli antibiotici prodotti a livello globale è utilizzato non dalla medicina umana ma nella zootecnia. L’uso eccessivo di questi farmaci e la loro dispersione nell’ambiente attraverso le deiezioni animali fa aumentare l’antibiotico-resistenza, ossia la produzione di super- batteri aggressivi suscettibili poi di attaccare l’essere umano. Nel suo ultimo rapporto sulla questione, l’Organizzazione mondiale della sanità ( OMS) definisce l’antibiotico- resistenza una “grave e potenziale minaccia alla salute pubblica”.
Tutti questi elementi non sono indicati sulla confezione di würstel venduta al supermercato a 0,95 centesimi o sulle salsicce offerte a 3,59 euro al chilo. Per capire l’impatto reale della carne a basso costo può essere utile riproporre i risultati di “Prosciutto nudo”, lo studio che abbiamo condotto all’inizio di quest’anno con l’associazione Terra! sugli allevamenti suinicoli nel nostro paese. In Italia si allevano annualmente 12 milioni di maiali, con una presenza costante di 8,6 milioni di capi. La gran parte di questi sono impiegati nelle cosiddette produzioni DOP, principalmente il prosciutto di Parma e il prosciutto San Daniele, i cui disciplinari prevedono che gli animali siano nati, allevati e macellati sul territorio nazionale. La stragrande maggioranza degli allevamenti sono concentrati in una zona di poche decine di chilometri quadrati, tra le province di Mantova, Brescia, Reggio Emilia e Modena. Questi suini producono 11 milioni di tonnellate di feci all’anno, consumano 3,5 milioni di tonnellate di mangimi proveniente in prevalenza dal Sud America, subiscono trattamenti antibiotici collettivi e indiscriminati. Se ai maiali sommiamo i 500 milioni di polli da carne, i 50 milioni di galline ovaiole, i sei milioni di bovini presenti nel nostro paese, vediamo come ci troviamo di fronte a una bomba ecologica.
Quali opzioni abbiamo per disinnescarla? Il ripensamento del modello dell’allevamento intensivo, la riduzione del consumo di carne e la scelta vegetariana o vegana sembrano tutte soluzioni ineludibili a medio termine. Al di là delle scelte individuali, che investono soprattutto la sfera dell’etica, il superamento del modello industriale permetterebbe di ridurre l’inquinamento e i rischi sanitari. La Terra, secondo le proiezioni FAO, sarà abitata nel 2050 da nove miliardi di persone: diventa imperativo ripensare il sistema di produzione alimentare. Ne va del benessere del pianeta che dovremmo consegnare intatto alle generazioni future.