la Repubblica, 2 settembre 2018
Ancora in morte di Luca Cavalli-Sforza
Con Luca Cavalli-Sforza, scomparso venerdì pomeriggio nella sua casa di Belluno, non se ne va solo una delle menti italiane più brillanti del Ventesimo secolo. Se ne va un formidabile innovatore: l’uomo che, nel corso di sessant’anni, ha portato la genetica mondiale a trasformarsi da una scienza artigianale – un bancone, qualche moscerino, poche attrezzature e tante idee – a una grande impresa transnazionale ad altissimo contenuto tecnologico. Se la moderna scienza dei genomi oggi ci offre possibilità senza precedenti di comprendere i meccanismi di base della vita, è merito di un piccolo gruppo di scienziati dalla vista lunga, con Luca Cavalli-Sforza appunto in prima fila. Lo chiamavamo tutti Luca, ma in realtà si chiamava Luigi. Sull’origine del Luca circolano due leggende. Secondo la prima, pare che il padre della genetica italiana, Adriano Buzzati-Traverso, lo chiamasse Luca per sbaglio, e poi si giustificasse dicendo che comunque aveva “una faccia da Luca”. Preferisco l’altra, secondo cui, arrivato in America, resosi conto che lì tutti hanno ilmiddle name, aveva deciso di inventarsene uno. Aveva preso le prime sillabe del nome e del cognome e, baciato dalla grazia in questo come in tanti altri aspetti della vita, ne aveva ottenuto un nome, Luca.
Luca sembrava davvero un uomo baciato dalla grazia. Dava un’impressione di leggerezza, sia che derivasse formule matematiche sul bloc notes (lo faceva a velocità spaventosa) sia che prendesse la parola in consessi internazionali. Tutto quello che faceva era elegante, nulla di quello che faceva sembrava richiedere il minimo sforzo: a lui, voglio dire, mentre tutti gli altri, compreso chi scrive, dovevano sudare per star dietro ai suoi ragionamenti che poi, una volta esposti, sembravano limpidi, quasi banali. Versatile e curioso di tutto, aveva cominciato studiando la Drosophila, il moscerino della frutta caro ai genetisti, e poi, a Cambridge, i batteri. È stato lui a scoprire i cosiddetti ceppi Hfr, che avrebbero permesso di capire come è fatto il DNA del batterio Escherichia coli, nel frattempo rivelando stupefacenti aspetti della vita sessuale (sì, sessuale) di queste creature.
Ma nei libri di testo del futuro Cavalli- Sforza sarà ricordato soprattutto per il suo fondamentale contributo alla genetica umana. Mentre, nell’ultimo decennio del XX secolo, si lavorava intensamente a leggere l’intero genoma umano, Cavalli- Sforza aveva capito prima di tanti altri che un solo genoma non ci può dire molto. Quello che conta veramente, quello che fa di ognuno di noi un individuo unico e irripetibile, sono le nostre differenze, e quindi, per capirle, bisogna studiare tanti genomi. Il progetto HGDP, lo” Human Genome Diversity Project”, da lui promosso e difeso quando la competizione per i fondi era durissima e la concorrenza spietata, è stata la chiave per comprendere meglio le cause di complesse malattie genetiche, e al tempo stesso rivelare aspetti sorprendenti della nostra vicenda evolutiva.
Io però penso che la cosa più importante nella luminosa carriera scientifica di Luca Cavalli- Sforza sia un’altra, e risalga agli anni Settanta. La genetica di popolazioni, la disciplina che più di ogni altra ha beneficiato della sua creatività e capacità organizzativa, allora era una disciplina modesta. Certe malattie genetiche sono trasmesse da portatori sani che, sposandosi, hanno una probabilità su quattro di fare un figlio malato; all’epoca non esistevano test sul DNA, i portatori sani erano difficili da individuare; la genetica di popolazioni cercava di minimizzare il rischio che si sposassero fra loro. Per primo, Luca Cavalli- Sforza capisce che nelle nostre cellule c’è ben di più: che il messaggio lasciato nel nostro DNA dalle generazioni precedenti ci permette di illuminare aspetti del passato altrimenti inconoscibili. Le prime vicende della preistoria umana in Africa; le migrazioni che hanno portato Homo sapiens a colonizzare tutto il mondo; e i continui scambi che hanno fatto della nostra specie il mosaico che è; su tutto questo oggi sappiamo molto, grazie a una geniale intuizione di Luca Cavalli-Sforza (e a quelli che hanno saputo seguirla).
Non gli hanno dato il Nobel; se lo meritava. A Stoccolma non hanno mai riconosciuto alla biologia evoluzionistica il peso che dovrebbe avere. Luca Cavalli-Sforza ha lasciato però tanti allievi, in Italia e all’estero. Pochi come lui hanno saputo attraversare i confini fra discipline diverse, sviluppando collaborazioni con antropologi, biologi molecolari, demografi, ecologi, linguisti, archeologi e storici (difficilissime quelle con i linguisti). Pochi come lui hanno saputo affascinare con le loro idee, formando generazioni di giovani scienziati che gli saranno per sempre debitori. In Italia non è un’esagerazione dire che, in un modo o nell’altro, siamo tutti suoi figli, noi genetisti. Io, in realtà, meno di altri, di chi ha lavorato per anni con lui, a Parma, a Pavia, e poi a Stanford. Laura Zonta, Suresh Jayakar, Gianna Zei, Alberto Piazza, Paolo Menozzi, Italo Barrai… mi scuso se non posso nominarli tutti. Come a loro, da oggi mi mancherà uno dei grandi italiani del secolo. Siamo un po’ più soli, e più tristi.