«Difatti trent’anni fa in Francia mi chiamavano il Lacoste italiano».
Ma lei ha fatto qualcosa in più: ha portato il colore sui campi da tennis.
«Fu una rivoluzione. Il bianco era considerato sacro, come ancora adesso a Wimbledon. La federazione internazionale era contraria, invece i giocatori volevano la libertà di vestirsi come gli pareva. Quando, con l’arrivo dell’Atp ebbero più peso, la cosa fu possibile».
Se la ricorda la sua prima maglietta colorata e che faccia fecero quelli che la videro?
«In realtà era una collezione dove oltre alla canonica polo bianca ne avevamo una gialla, una azzurra e una salmone».
Tutte rigorosamente in tinta unita?
«Certo che sì. Ma per Wimbledon m’inventai qualche trucchetto».
Le maniche verdi e rosse di Connors?
«Anche. Si trattava di contaminare il bianco obbligatorio con i coordinati. Bastavano, di colorato, una cintura o un bordino. Diciamo che mi vanto di aver reso personale anche il bianco».
Ma questi inglesi non sono un po’ parrucconi?
«Hanno saputo mantenere il rigore della tradizione, per questo li rispetto. E di sicuro non li giudico: guidano al contrario e hanno la regina…».
Sono i giorni della tuta da Black Panther di Serena Williams. Che ne pensa?
«Mi pare una buffonata, una specie di fesseria pubblicitaria. Lo stile non può ridursi a marketing, e non bisogna mai dimenticare la funzionalità del prodotto. Un completo da tennis deve aiutare l’atleta a giocare meglio, non solo a farsi vendere o vedere».
Ma una maglietta è una maglietta.
«Le spiego. Una volta inventammo la tasca particolare dei pantaloncini dove mettere la palla dopo la prima di servizio: doveva essere laterale, perché non desse fastidio al muscolo della coscia. Le rivoluzioni procedono attraverso piccole cose».
Le piace come si vestono oggi i tennisti?
«Forse bisognerebbe dire come si vestono oggi i ragazzi, anzi le persone. Mi pare siano un po’ saltate le marcature e che si tenda a cacciarsi addosso qualunque cosa.
Io credo che qualche riferimento serva, e che alla fine i riferimenti compongano uno stile. Cancellarlo del tutto non significa crearne uno nuovo, almeno non sempre».
Un bel giorno lei ebbe l’idea di abbinare il prodotto al giocatore: l’intuizione di una vita?
«Credo di avere inventato la sponsorizzazione quando neppure esisteva la parola per definirla. Il mio avvocato mi chiedeva cosa fosse, che significasse sponsor.
Domandava, timido: è una specie di patrocinio? Per lui si trattava di regolarizzare il rapporto tra azienda e atleta, l’unico riferimento era l’America».
Lei non cercò campioni qualunque.
«Volevo personaggi, sapevo che avrebbero avuto più presa sul consumatore. Si trattava di vendere magliette a tutti, non solo ai tennisti che all’epoca erano poche decine di migliaia. Scelsi Nastase, Connors, fuoriclasse fuori dalle righe nel bene e nel male, ma soprattutto John McEnroe. Un amico. Per anni abbiamo festeggiato il nuovo anno a New York con le famiglie. John era unico anche quando sbraitava all’arbitro: un testimonial perfetto.
Tra lui e Borg, che pure era un tennista eccezionale, avrei sempre scelto John. Lo svedese era un orso, un calcolatore che non sapeva emozionare. Per vendere prodotti e affermarsi nell’immaginario del consumatore occorre carisma».
Un’altra leggenda con il suo logo è stato Senna. Ricordi?
«Una persona particolare. Una volta, il pilota argentino Carlos Reutemann mi disse: quando vedo nello specchietto gli occhi di Ayrton, mi sposto».
In quegli anni la lotta tra sponsor era una questione italiana anzi piemontese, Sergio Tacchini contro Fila, e non Adidas versus Nike.
«L’Adidas era già un colosso, Nike venne dopo di noi e si presentò attraverso l’atletica. Proponeva calzature tecniche e fece la differenza. Impose una produzione innovativa, pensando il prodotto negli Usa ma realizzandolo in Estremo Oriente a costi più bassi, per spedirlo in ogni angolo del mondo. La globalizzazione ha rovesciato tutto».
Lei nel 2007 ha venduto il marchio ai cinesi: è vero che vorrebbe riprenderselo?
«Per fare certe operazioni bisogna essere in due. Ci sto pensando, da quando non guido più la società non mi pare che il risultato sia brillante. Il nostro logo si vede meno e la cosa non mi piace. Non sono il vecchietto da mettere da parte. I medici sostengono che geneticamente io abbia almeno dieci anni di meno, e venti in meno sono quelli che sento in corpo.
Gioco a tennis, a golf, scio e lavoro ancora. Chi vivrà vedrà».
Sergio Tacchini, cosa vuol dire essere quella S e quella T?
«Mi sento a metà strada tra una persona e un marchio, dove per marchio si intende qualcosa di identitario, di riconoscibile, un legame di fedeltà e amicizia con il consumatore. L’aspetto commerciale non è il più importante. Ci sono marchi che accompagnano la vita e ne scandiscono i ricordi. Io mi sento una cosa del genere. E credo di avere reso più popolare il tennis».