Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2018
L’incredibile storia della Strada dei Cento giorni
Cent’anni senza rughe né cedimenti. La Strada dei Cento giorni, realizzata in quattro mesi a inizio 1918, arriva al Passo San Boldo e, dopo un secolo, si mostra ogni giorno nella bellezza della roccia a strapiombo e dei terrapieni ricamati nella pietra da mani umane. Siamo in Veneto, laddove le morbide (e redditizie) colline del Prosecco della Marca Trevigiana si arrampicano verso il Bellunese. E siamo nel 1918: lo sfondamento di Caporetto è alle spalle (24 ottobre 1917), l’esercito austro-ungarico pensa alla Battaglia del Solstizio per chiudere finalmente la guerra.
Tutto facile sulla carta, ma servono soldati, e tanti. Senza strade non si costruisce il mondo: lo insegnano le viae consolari volute da Roma. Vienna sa di non avere un’arteria veloce per far affluire truppe e armi sul Piave e sul Grappa, così sceglie di costruire la Tovena-Trichiana Straße. La direttrice c’è, e, in parte, vi aveva messo mano il Genio civile italiano fra 1914 e 1916 con l’ingegnere Carpenè, arresosi davanti alle pareti di roccia dello Scalòn di San Boldo.
Vienna ha fretta, la guerra non aspetta. La nuova Tovena (Tv)-Trichiana (Bl), lunga 15 chilometri, avrebbe ridotto il percorso da Vittorio Veneto a Feltre di una trentina di chilometri. Viene scelto il tenente colonnello Nikolaus Waldmann, uomo d’altri tempi, di umili origini cresciuto nel reggimento pionieri e al servizio di sua maestà l’imperatore fra Polonia e Slovenia sempre a progettare strade e ferrovie. Il 26 gennaio 1918 Waldmann è assegnato alla VI Armata e comanda il gruppo Costruzioni. Davanti si trova un percorso realizzato fino alla gola di San Boldo, dopo solo una striscia di polvere. Eppure, da decenni, le genti di quassù chiedono di migliorare la mulattiera. Lungo il passo transitano legna, frutta, biade, le lane di Follina e Cison, il vino della Marca (un documento del 1684 ricorda che in quell’anno a dorso di mulo attraverso il San Boldo passarono 440 ettolitri di vino), greggi e uomini, che si fermano sul passo per pagare i dazi e per un pasto alla muda con osteria, stallo e locanda.
Giorni concitati tra fine gennaio e inizio febbraio 1918: il nodo è superare un dislivello di 80 metri, inciso nella roccia verticale. La soluzione è uno sviluppo in lunghezza di 800 metri con cinque gallerie, sei tornanti, sei ponti e una perdenza del 10-12%. Waldmann studia, fa ipotesi perché mezzi non ce ne sono: solo la dinamite e una perforatrice con trapano pneumatico. Si inizia il 1° febbraio 1918. Si bucano le gallerie sui due lati per guadagnare giorni, si costruiscono i capanni per gli attrezzi, le impalcature per operare in quota, i primi muri di contenimento ma i 350 addetti con perforatrice, i 40 operai bosniaci che lavorano la pietra e altri 200 uomini a Sant’Antonio sono pochi. A fine febbraio arriva il primo cemento da Vittorio Veneto, impastato con i detriti recuperati dalle gallerie, ma a marzo l’ordine di Vienna è perentorio: finire i lavori entro tre mesi. Servono altre braccia. Arrivano tecnici specializzati, prigionieri italiani e russi, militari feriti e in via di guarigione, tanti civili, tutti ricompensati con vitto e paga quotidiana. Anziani, donne e bambini sono importanti: distribuiscono e compattano il fondo stradale e mantengono rifornito il frantoio per la produzione di sabbia e ghiaia. Ex omnibus unum, tutti per uno, perché la necessità va oltre gli strapiombi di roccia.
A marzo giunge a Tovena anche la carovana di veicoli «Autokolonne 173» per accelerare i tempi di trasporto dei materiali, acqua compresa usata per il cemento (poi, finalmente, venne la pioggia dal cielo). Tutto procede, Waldmann è aiutato dal direttore dei lavori, il boemo František Krušina, anche lui una carriera con il genio militare austro-ungarico ad assicurare ovunque armi e viveri all’esercito.
Fra Tovena e Trichiana faticano 7mila persone, divise su cinque sezioni del cantiere e attive su tre turni. Uno da dieci ore di giorno, con un’ora d’interruzione a pranzo durante la quale si fanno brillare le mine, due turni da sei divisi da un’ora, sempre per le mine. Si riposa solo un giorno a settimana, in base alla religione perché ci sono cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani, e di notte si lavora grazie a torce all’acetilene e a fari elettrici.
Nulla è lasciato al caso, così il 31 maggio 1918, alle 5 del pomeriggio, passa la prima vettura sulla strada: con l’autista c’è Waldmann fiero di aver rispettato i tempi, e felice perché, come dice il montatore Faussone di Primo Levi «l’amare il proprio lavoro (che è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra».
La foto è iconica e ritrae un capolavoro di ingegneria, realizzato con pochi mezzi. Vienna credeva di vincere la guerra con quella strada, ci fece passare invece l’esercito in ritirata. Ma questa è un’altra storia.
L’immagine nitida e intensa di Waldmann fa parte di un tesoro in bianco e nero che si può ammirare nella mostra di Tovena «La strada dei Cento giorni» e nel volume curato dagli studiosi Gianpaolo Tomio e Alessia Cerentin, che hanno lavorato su materiale prezioso. Pochi mesi fa, infatti, Jan Kaiser, pronipote di Krušina, trova nella casa del bisnonno, a Bílá Tremešná (Repubblica Ceca), uno scatolone abbandonato e sopravvissuto a due guerre mondiali. Dentro la sorpresa: foto (con tanto di data e ora di ogni scatto), planimetrie e il diario di Krušina. Cosa chiedere di più alla storia?
La Strada dei Cento giorni che, dopo cent’anni è là, appesa al cielo, percorsa ancor oggi da migliaia di veicoli, ci ricorda quanto i lavori fatti bene, con pragmatismo e senza ideologia, siano eterni. Una lezione potente in questo nostro disastrato oggi, sommerso dal dolore delle vittime del Ponte Morandi e da accuse incrociate che non portano da nessuna parte.