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 2018  settembre 01 Sabato calendario

Paolo Giulierini: “Con spot e videogiochi ho rilanciato il museo archeologico”

«Io sono di Cortona, ho avuto un illustre concittadino che nel ’700 venne a Napoli, chiamato da Carlo di Borbone, per allestire il primo nucleo dell’attuale museo. Quindi pare che ogni 3 secoli un cortonese…».

Paolo Giulierini, 49 anni, dall’ottobre del 2015 dirige il Mann, Museo archeologico nazionale di Napoli - uno dei più importanti al mondo, grazie soprattutto (ma non solo) alla straordinaria collezione Farnese e ai tesori pompeiani - che languiva alla media mortificante di 280 mila visitatori l’anno, e in meno di tre anni l’ha rilanciato. «Nel 2017 abbiano chiuso a quota 540 mila, metà italiani e metà stranieri, ma il trend nei primi otto mesi del 2018 è +27%, quindi sicuramente andremo oltre i 600 mila, credo molti di più. Un numero ancora inadeguato per questo museo, che può tranquillamente rivaleggiare con l’Egizio di Torino [850 mila visitatori nel 2017, ndr]».
La sua ricetta?
«La ricetta è la realizzazione di un piano strategico di lungo corso, quadriennale, meglio se pubblicato e trasparente, con step cronologici che riguardano in maniera ferrea allestimenti, alleanze e azioni di promozione. Quindi date precise di realizzazione, convenzioni con l’aeroporto di Capodichino, che ospita statue dedicate al tema del volo, con Msc Crociere e Frecciarossa, spot che scorrono nella metropolitana, il videogame Father and son, scaricato da oltre 2 milioni di utenti in tutto il mondo. E le mostre internazionali, in Cina, Russia, Giappone, America: 30-40 ogni anno - di cui una ventina realizzate solo con pezzi del museo - che sono un forte strumento di promozione. L’idea è quella di disseminare viralmente il museo. Aprirlo all’università e all’intera città, rendendolo il luogo di tutti».
Con l’università, prima, non c’erano rapporti?
«In parte sì, però o era un rapporto di sudditanza o era un rapporto competitivo. Noi riteniamo che l’università sia necessariamente il braccio della ricerca del museo, e per questo destiniamo almeno 300 mila euro l’anno, cifra importante per noi, per convenzioni specifiche. Il patto è che però queste ricerche debbano avere anche una ricaduta nel museo».
Ricevete finanziamenti dallo Stato?
«Il museo ha un bilancio di 4 milioni di entrate e 4 milioni di uscite nel bilancio ordinario. Per quanto riguarda le entrate, 2,4 milioni sono proventi dei biglietti, 800 mila di fee per mostre, il resto da royalty nei confronti dei servizi esterni legati alla biglietteria. Lo Stato ci dà una tantum finanziamenti per le spese correnti, ma soprattutto finanzia attraverso erogazione di fondi europei la realizzazione di grandi opere pubbliche all’interno del palazzo».
Le sue realizzazioni?
«Nel 2016 abbiamo riaperto i due giardini storici e la sezione egizia, nel 2017 la sezione epigrafica e il nuovo laboratorio di restauro, nel 2018 è stato riallestito l’atrio e inserito il wi-fi. E nel 2019 avremo il terzo giardino, il ristorante, la caffetteria, l’auditorium, la sezione didattica e una interessantissima sezione tecnologica pompeiana».
Sul totale posseduto, quanti sono gli oggetti esposti?
«Circa il 50%, ma la metà di quanto ora non è esposto verrà riallestito nei prossimi anni, quando la superficie espositiva passerà da 16 a 20 mila metri quadrati. Prima la sezione della Magna Grecia, nel maggio 2019, poi il raddoppio delle collezioni pompeiane. Tutto quello che non potrà essere esposto sarà oggetto di depositi fruibili».
Come avviene il dialogo con la città?
«Lavoriamo con associazioni di giovani del territorio che si occupano di 20 siti minori di Napoli e dintorni che hanno visibilità all’interno del museo. Inoltre abbiamo una serie di progetti di natura sociale, per esempio con i bambini di Forcella con i quali stiamo realizzando una guida in napoletano della storia archeologica del loro quartiere. Vogliamo veicolare il messaggio che i beni culturali non sono solo una modalità di accrescimento spirituale, ma possono essere anche un’occasione professionale di crescita. Questo è importante, altrimenti non siamo più credibili. Perché la bellezza salva il mondo se il mondo ha risolto i problemi primari, altrimenti non salva un bel niente».
Qual è la sua idea di museo di antichità?
«Credo che i musei archeologici si debbano affrancare dalla sola idea di bellezza. C’è anche la bellezza, ma un museo che faccia storia deve ricordare come la bellezza abbia molti volti: un capolavoro statuario può essere oggetto di una depredazione, di un sopruso, può aver visto tante persone cadere nelle cave quando si cavava il marmo, può riflettere una società che per esempio dava come normale la schiavitù. Deve far venire fuori il fatto che l’antichità non è un’età dell’oro ma una età problematica, complessa, con tanti problemi e tante vette, simile alla nostra. Da lì la funzione etica e sociale del museo, come luogo che ci fa riflettere sul presente».
Il pezzo del museo a cui è più legato?
«Senz’altro il mosaico di Alessandro, quello ritrovato nella Casa del Fauno a Pompei. Ritengo che la vicenda del Macedone sia esemplare anche ai giorni nostri, perché sia pure attraverso un’azione di guerra è riuscito a creare i presupposti per una commistione pacifica tra cultura greca occidentale e cultura orientale. Figure così globalizzanti possono essere un riferimento anche oggi. Naturalmente poi c’è l’opera in sé, quei 2 milioni e mezzo di tessere, una icona universale. Però chi ha voluto quell’opera di sicuro aveva in mente anche questo valore più ampio, sapeva cogliere questo aspetto unificatore di civiltà. Mai come adesso il processo è in corso, siamo di fronte a migrazioni di massa più o meno forzate e comunque a un ineluttabile sinecismo e sincretismo».