Il Messaggero, 1 settembre 2018
Pietro Koch, l’aguzzino del regime inviso anche ai nazisti
L’Europa ha cancellato dalla sua cultura la pena di morte, e tutti noi siamo giustamente inorriditi che, ancora oggi, uno Stato possa legalmente sopprimere una vita. Tuttavia il nostro stesso Paese, anche a guerra finita, continuò a condannare alla fucilazione alcuni criminali fascisti. Queste esecuzioni dovrebbero, coerentemente, suscitare in noi un orrore retroattivo, perché i princìpi non hanno, o non dovrebbero avere, eccezioni. Eppure, davanti alla vicenda di Pietro Koch, proviamo quasi un’istintiva simpatia verso il plotone di esecuzione.
Pietro Koch era nato a Benevento il 18 agosto 1918, da padre tedesco e madre italiana. Ebbe una vita disordinata e controversa, si arruolò nel 1938 come ufficiale di complemento di Marina, ma fu presto congedato, pare per insubordinazione. Durante la guerra rimase inattivo, salvo dedicarsi a modeste attività truffaldine per le quali fu segnalato dalla polizia.
Il suo grande momento arrivò con l’occupazione nazista dopo l’otto settembre 43. Koch intravide la possibilità di coniugare un potere quasi assoluto con l’indole malvagia della sua personalità narcisistica. Mise insieme una banda raccogliticcia – c’era persino un prete sospeso a divinis – e si mise alla caccia dei pochi ebrei rimasti a Roma dopo il rastrellamento di Ottobre, e dei membri della Resistenza che si stava costituendo nella Capitale.
L’INGANNOCon un inganno, violando l’immunità dei palazzi vaticani, penetrò nel convento di San Sebastiano, e arrestò il generale badoglianoMario Caracciolo di Feroleto. L’episodio sollevò le proteste della Santa Sede e irritò persino i tedeschi, che vedevano con sospetto sia gli eccessi di zelo dei repubblichini sia le interferenze con le prerogative di un prestigioso Stato neutrale.
Ma Koch continuò imperterrito, anche perché i risultati arrivavano. I conventi di Roma pullulavano, come lo stesso Vaticano, di antifascisti ed ebrei che vi avevano trovato accoglienza. Koch vi fece irruzione varie volte e, valendosi anche dei suoi compagni spretati, individuò facilmente i religiosi veri da quelli fasulli. Forse fu a queste turpi imprese che Roberto Rossellini si ispirò nel film Era notte a Roma,dove lo zoppo Tarcisio interroga alcuni rifugiati sui fondamenti della teologia, smascherandone l’identità. Quasi tutti gli arrestati venivano portati in via Tasso, e sottoposti a strazianti torture, sotto l’occhio compiaciuto, e persino eccitato, dell’aguzzino e di qualche sua amichetta. Molti finirono nei lager, altri furono fucilati alle Fosse Ardeatine. I pochi sopravvissuti ricordarono quei momenti come un inferno di crudeltà.
Esaltato da questi successi. Koch tempestò di lettere il Generale Maelzer, comandante della piazza di Roma, il colonnello Kappler, capo della Gestapo-SD, e i massimi vertici della polizia di Salò, offrendosi come fedele e capace collaboratore. Kappler per un po’ lo protesse, ma continuò a diffidarne. Il burocratico nazista disprezzava quello che ai suoi occhi era comunque un vituperevole traditore.
Quando la Capitale fu liberata, Koch si trasferì a Milano, dove, assieme ad altri sgherri della banda Carità, continuò a imprigionare e a torturare in quella che fu significativamente chiamata Villa Triste. L’attore Osvaldo Valenti ne era un assiduo frequentatore, e questo, a guerra finita, gli costò la fucilazione assieme alla compagna Luisa Ferida, che pare assistesse peraltro senza intervenire – a quelle orge di violenza. Orge così disgustose che alla fine indignarono persino i fascisti, che nel dicembre del 44 arrestarono Koch e lo spedirono a San Vittore. Ne uscì nell’Aprile successivo, quando, con l’avanzare degli Alleati, fu liberato nel fuggi fuggi generale. Scappò a Firenze, dove fu arrestato, e condotto a Roma per il giudizio.
GIUSTIZIAIl 4 giugno 1945 Pietro Koch comparve davanti all’Alta Corte di Giustizia, nell’aula magna dell’Università La Sapienza. Fu l’unica solennità concessa a un processo veloce ai limiti della sommarietà. Tra i pochi testimoni, il più importante fu Luchino Visconti, che elencò il catalogo di torture inflitte da Koch ai prigionieri per indurli a parlare: frustate, percosse, false esecuzioni, persino abusi sessuali. Pare che il raffinato regista, salvato per intercessione di un’attrice, avesse promesso a Koch, al momento del rilascio, di ritrovarlo davanti al plotone di esecuzione. Gli altri testi furono ascoltati per pura formalità. Le prove erano schiaccianti, e l’imputato non le contestava. Se fosse per intrepido coraggio o inerte rassegnazione nessuno ebbe il tempo di verificarlo. Il giorno successivo la Corte lesse la sentenza: morte per fucilazione alla schiena. La condanna fu eseguita poche ore dopo. Tutto sommato, Pietro Koch rappresentò l’aspetto più turpe della repressione repubblichina, assistita, nel suo caso, da una dose massiccia di sadica ma lucida psicopatia. Le lettere inviate agli occupanti, con le quali magnificava le sue imprese e invocava riconoscimenti, oscillano tra l’orgogliosa vanteria e la petulanza gregaria.
SPREGIUDICATOForse aveva sperato di emulare Henry Lafont, uno spregiudicato e geniale truffatore, che aveva costituito a Parigi una gestapo francaiseincaricata dai nazisti di eseguire i lavori più degradanti : eliminazioni di oppositori sgraditi, delazioni, e soprattutto torture ed esecuzioni di partigiani. In questa sua sciagurata occupazione, Lafont aveva accumulato ricchezze enormi, girava in Bentley, frequentava nobildonne compiacenti e attori famosi, e pasteggiava a champagne in una città ridotta alla fame. Ma Lafont conservava una certa grandezza anche nel delitto: con la stessa noncuranza con cui arrestava patrioti o sterminava bande rivali, occasionalmente salvava dalle grinfie della gestapo qualche prigioniero e persino qualche ebreo: alcuni, al processo, testimoniarono a suo favore. Baldanzoso e ironico, disse al Presidente della Corte che, avendo vissuto in tre anni molte vite, poteva benissimo perderne una in pochi secondi. Pietro Koch fu invece uno scherano di terz’ordine, senza pietà e senza nemmeno fantasia, se si esclude quella di un sadismo patologico.
LE PERVERSIONILe sue perversioni furono degradanti e oscene, le sue amicizie sordide e meschine. Se è vero che anche nel vizio si rivela la forza o l’inconsistenza di una personalità, quella di Koch fu instabile e ambigua, come quella dei falliti, degli spretati e dei viziosi che lo assistettero nel tradimento e nelle turpitudini. Anche il suo breve processo fu futile e fiacco come il suo carattere: i giudici non credettero che meritasse più di un giorno di attenzione. Lo considerarono per quello che fu; subalterno persino nel degrado morale e civile di un regime morente. La stessa fucilazione alla schiena fu un simbolico favore ai componenti il plotone di esecuzione, che si sarebbero vergognati di guardare in faccia un simile mostro. Luchino Visconti filmò la macabra scena, e mantenne la promessa fatta un anno prima.