Corriere della Sera, 1 settembre 2018
Le ossessioni di Orson Welles
Si fosse visto quando era stato girato, negli anni Settanta, avrebbe avuto l’effetto di una bomba, tanto smontava le mode e metteva in discussione le certezze. Oggi, quando The Other Side of the Wind è diventato finalmente visibile grazie alla testardaggine di Peter Bogdanovich e all’intervento finanziario di Netflix, il film postumo di Orson Welles può sembrare un «oggetto misterioso» che parla soprattutto ai cinefili, rischiano così di offuscare le sue straordinarie qualità.
Perché quello che doveva segnare il ritorno di Welles negli Stati Uniti dopo più di vent’anni di «esilio» europeo e che l’autore voleva fosse «completamente diverso da qualsiasi altro film girato finora» (per non smentire quello che aveva sempre guidato le sue regie: mettere in discussione le certezze dello spettatore) rischia di ridursi all’espressione delle sue idiosincrasie e delle sue ossessioni. A cominciare da un montaggio pirotecnico, che mescola immagini a colori e in bianco e nero, 35 e 16mm, formato panoramico e rettangolare, per restituire il caos e l’indecifrabilità del reale.
All’origine di tutto ci sono le tormentate riprese del film, iniziate il 23 agosto 1970 e finite nella primavera del ’74, tra cambi di attori, ricerca di fondi e continui ripensamenti. La storia racconta la festa per il compleanno del regista settantenne Jake Hannaford (interpretato da John Huston) organizzata da una sua vecchia amica (Lilli Palmer) per far conoscere ai giovani di Hollywood un regista quasi dimenticato. Mostrando scene del suo ultimo film, The Other Side of the Wind.
L’interminabile lavoro di montaggio (Orson Welles aveva lasciato una quarantina di minuti, finiti il resto è opera di Bob Murawski) e le infinite peripezie dopo la morte di Welles (parte del film era finanziato da un cugino dello Scià di Persia che l’arrivo di Khomeini bloccò) sono raccontate dal documentario They I’ll Love Me When I’m Died (anche lui visto alla Mostra e distribuito da Netflix il prossimo 2 novembre, come il film di Welles). Ma dar troppa enfasi all’odissea produttiva rischia di distrarre dal senso profondo del film che stimola una doppia riflessione: sulla fine di un certo tipo di cinema messo in discussione dai campioni della «modernità» (se il suo Hannaford è la versione cinematografica di un «vecchio» personaggio hemingwayano, era inevitabile che Welles se la prendesse con i campioni del «nuovo», i registi della Nouvelle Vague, il «mangiaspaghetti» Bertolucci, Antonioni, di cui «rifà» una scena di Zabriskie Point) e poi – seconda riflessione – il modo in cui quella crisi poteva essere raccontata. Sono gli spunti oggi più interessanti, come il complicato rapporto tra Hannaford e il suo allievo prediletto (interpretato da Bogdanovich), l’ambiguo legame tra il regista e i suoi attori, il suo troppo sbandierato machismo (nel film dentro il film, Oja Kodar, allora musa e collaboratrice del regista, è spesso ostentatamente nuda), ma anche l’insensatezza di certe curiosità, le riflessioni della montatrice (affidata una grande attrice di Orson Welles, Mercedes McCambridge), il destino dei luoghi di proiezione.
Welles non è mai stato un regista metodico e ordinato, preferiva il «caos fertile» alla freddezza didascalica e questo film, così come l’operazione di Bogdanovich e Netflix che l’ha fatto tornare a vivere, rischia forse di sorprendere gli spettatori più giovani, che non ricordano operazioni simili (e coeve) di Welles, come F For Fake o Filming Othello. Ma proprio per i suoi «eccessi» e le sue «eccentricità» questa può essere l’occasione ideale per riscoprire oggi uno dei più grandi registi di tutti i tempi.