Corriere della Sera, 1 settembre 2018
Il vero John McCain raccontato dal suo carceriere
Caro Aldo,
nei giorni in cui l’America dà l’addio a John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali del 2008, in Italia viene presentato quasi come uno di sinistra. Non c’è qualcosa che non va?
Franco Landolfi
Caro Franco,
in effetti rileggere la lunga biografia di John McCain solo alla luce dello scontro con Trump è riduttivo. McCain era un uomo di destra, e neanche della destra moderata. Allievo politico di Barry Goldwater in Arizona, di cui ereditò il seggio al Senato, in politica estera era un interventista, quindi per certi aspetti a destra di Trump. I due erano separati da una diversa concezione del partito repubblicano, della politica, e anche della vita. Nella storia di McCain erano fondativi i sei anni trascorsi all’Hanoi Hilton, come gli americani chiamavano con amara ironia il carcere della capitale nordvietnamita. I nemici si accorsero subito di avere per le mani il figlio dell’ammiraglio che comandava la guerra dal mare, e cercarono con ogni mezzo di estorcergli una «confessione» dei suoi «crimini». Alla vigilia delle presidenziali 2008 andai ad Hanoi a intervistare il carceriere di McCain, Nguyen Tien Tran, e il direttore dell’Hanoi Hilton, Tran Trong Duyet. Affermavano che McCain era stato maltrattato, non torturato. Il loro racconto differiva da quello che il prigioniero aveva affidato alla propria autobiografia, Faith of my fathers. Ma certo per McCain era stata dura. Nella sua cella c’erano una branda, un bugliolo con coperchio, una coperta. La luce era accesa 24 ore su 24. Nessuna finestra. Sempre una guardia fuori. McCain ha scritto di aver ucciso quattrocento zanzare in un giorno. «In effetti in Vietnam abbiamo molte zanzare» replicava il carceriere. Però, quando una recluta sputò nella sua ciotola di riso in segno di disprezzo, lo redarguì: il prigioniero meritava rispetto. «L’amministrazione del carcere calcolò che ogni pasto dei prigionieri ci costava un dong e sessanta, più del doppio del pasto di una guardia. Pensavamo che gli americani erano abituati a mangiare di più. I primi tempi, niente pacchi o lettere, niente giornali. Non potevano arrivare notizie dall’esterno, neppure l’elezione di Nixon o lo sbarco sulla Luna, se non quelle che davamo noi con gli altoparlanti: le nostre vittorie, l’elenco dei loro caduti». Trump avrebbe dovuto trovare parole diverse per un eroe americano.