Per buona parte della nostra relazione, durata sei anni, mi sono riferito spesso a Oliver chiamandolo "dizionario ambulante" (anzi, un OED ambulante da "Oxford English Dictionary") perché ricordava l’ortografia e le definizioni delle parole con grande precisione.
Malgrado ciò, Oliver rimase sempre umile, non si vantava mai del suo lessico straordinario e, in caso di dubbio, andava a controllare l’Oed (possedeva tutti i venti volumi che lo compongono), oppure il più compatto e sintetico Chamber’s Dictionary, una copia del quale gli era stata regalata dalla zia preferita in occasione del suo nono compleanno. Oliver adorava così tanto le parole che spesso le sognava e, in qualche caso, le inventava addirittura.
Una mattina di sei anni fa trovai scritto sulla lavagnetta in cucina "ore 5. Nepholopsia." «E che diamine vuol dire?» chiesi mentre preparavo il caffè.
Oliver ridacchiò, poi si lanciò nella descrizione di un sogno molto complicato che aveva fatto quella notte nel quale, bloccato su un pianeta alieno, aveva visto alcune nuvole antropomorfe trasformarsi in modo minaccioso e riversarsi dall’alto "con intenzioni omicide" sulla Land Rover che stava guidando. Un "incubo nebuloso", aggiunse, quasi si trattasse del primo che aveva. Per non dimenticarsene, lo aveva annotato alle cinque del mattino. (Parlò poi di questo suo sogno allo psicanalista freudiano da cui si recava due volte a settimana). «Nepholopsia – mi disse – significa "vedere le nuvole" oppure "essere avvolti dalle nuvole"». Poi aggrottò le sopracciglia. No, non ne era molto sicuro. «Controlliamo su un buon testo» disse, e insieme andammo a consultare l’Oed (la "mia Bibbia" lo chiamava spesso Oliver, ateo convinto).
Nell’Oed trovammo "nefologia", che significa studio delle nuvole (dalla radice greca nephos), ma non "nepholopsia". Saltò fuori che per puro caso aveva coniato una parola nuova.
Ne rise, ma di fatto non era la prima volta che gli capitava.
Oliver inventò la parola "musicofilia", l’intenso amore che si prova per la musica, che non esisteva prima che nel 2007 uscisse un suo libro così intitolato. (Oliver, in ogni caso, era sempre sollecito ad aggiungere che in inglese esisteva da tempo il termine "musicofobia", avversione per la musica, e pensava che fosse meritevole di nota avergli dato un antonimo.) Fu questo suo spiccato amore per le parole – etimofilia, se preferite – e per la scrittura (che considerava una forma di pensiero) a spingere Oliver a dirmi un giorno, poco dopo che mi ero trasferito a New York nella primavera del 2009, «devi assolutamente tenere un diario!». Il suo non era un consiglio, ma un ordine.
Seguii subito il suo consiglio, annotandomi quello stesso scambio di battute su un pezzo di carta che conservo ancora oggi.
Non tenevo un diario dai tempi dell’adolescenza, ma iniziai subito ad annotarvi le impressioni della mia vita a New York e – quando erano troppo fantastiche per non poter opporre resistenza – appuntai anche le parole che mi diceva Oliver, il che capitava quasi ogni giorno. In sintesi, Oliver era citato tutti i giorni.
Col passare degli anni, il mio diario newyorchese è cresciuto a dismisura, ma non l’ho più riletto fino a quando non ho deciso di scrivere un memoir della mia vita a New York e con Oliver. Ho pensato che rileggerlo mi sarebbe servito a rinfrescarmi la memoria. Invece, vi ho trovato qualcosa di sorprendente: alcune parti del libro erano già scritte. Si trattava di scene intere e di lunghi dialoghi tra Oliver e me.
Come se fossero rimasti tra le pagine, in attesa che io li riascoltassi.
Anche se Oliver non ha fatto in tempo a vedermi ultimare quel libro, Insomniac City, sono sicuro che non si stupirebbe del fatto che la sua genesi risalga a un diario. Dopo tutto, molti dei suoi stessi saggi, articoli e idee per libri erano nati da uno dei suoi diari manoscritti.
Oggi, a tre anni di distanza dalla morte di Oliver, sono tantissime le sue parole che mi sono rimaste ancora dentro, che mi fanno ancora sorridere, che ancora mi commuovono. Non molto tempo dopo aver ricevuto una diagnosi di tumore all’ultimo stadio, per esempio, una sera sollevò la testa dalla scrivania e all’improvviso mi disse una cosa che non dimenticherò mai: «Il massimo che possiamo fare è scrivere – in modo intelligente, creativo, critico, evocativo – di quello che vuol dire vivere in questo mondo in questa epoca».
Mentre mi parlava, ebbi la netta impressione che non intendesse rivolgersi soltanto a me, ma a chiunque in qualsiasi parte del mondo ami le parole tanto quanto le amava Oliver Sachs.
(The New York Times 2018. Traduzione di Anna Bissanti)