Corriere della Sera, 31 agosto 2018
Quando su Napoli regnava Cutolo. L’anticipazione del film a Venezia
«Spero che io non cadrei malato perché se cadessi malato io il sangue me lo farei dare da lui, perché è un sangue nobile e degno d’essere amato». Lo sgarrupato elogio di un abitante di Ottaviano, tratto da vecchie interviste, mostra quanto fosse marcio il rapporto tra tanti napoletani affogati nel degrado e Don Raffae’.
Raffaele Cutolo era allora il capo indiscusso della Nuova camorra organizzata, era finito in galera giovanissimo per aver ucciso un bullo reo di una battuta sulla sorella Rosetta, aveva raccolto dal carcere un esercito di tremila pronti a tutto per lui («si vede che ho seminato bene»), era indicato come il padrino spietato che aveva deciso decine di omicidi ma i paesani lo chiamavano «’O professore» perché sapeva leggere e scrivere e parlavano di lui con dedizione: «È un uomo semplice, sincero e leale...». «Siamo nati con lui e moriremo con lui». «È come il nostro santo protettore». Ed è lui, col contorno di orridi alveari urbani, di una umanità sfatta e violenta, di panzute matrone del contrabbando e tredicenni che sniffano eroina e capitelli devozionali e passanti che scansano i cadaveri sul selciato, il perno di «Camorra», il documentario di Francesco Patierno che sarà presentato domenica alla Mostra del cinema di Venezia per poi andare in onda martedì prossimo su Rai3.
Scritto col saggista Isaia Sales da sempre nemico della lebbra che «infetta Napoli e le province tutte» (primo rapporto governativo del 1861), secco come il titolo, privo di ogni indulgenza e ogni cenno a «pizza & mandolino», costruito coi filmati straordinari degli archivi Rai, il docu-film non pretende di raccontare tutto. Ma, come spiega il regista, mettere a fuoco un momento storico preciso, a cavallo tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta, quando la camorra cambia pelle e «da malavita di campagna, di territorio, senza struttura, senza cupole» viene contaminata dai boss mafiosi sciaguratamente inviati in domicilio coatto in quelle aree a rischio. È lì che «lascia la “guapponeria” al teatro e fa il salto di qualità». Diventando sempre più ingorda, cinica, feroce. Allungando i suoi tentacoli sul racket più asfissiante, il traffico di droga, i rifiuti tossici, il «cemento di sabbia» della ricostruzione corrotta dopo il terremoto. E poi omicidi, omicidi, omicidi. A decine. A centinaia.
Napoli è «la più misteriosa città d’Europa, la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia», scriveva Curzio Malaparte ne La Pelle, «La sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta». Ma quella era la «sua» Napoli. Quella raccontata da Roberto Saviano in «Gomorra» è un’altra cosa. Ecco, spiega Patierno, «il nostro film è la camorra prima di Gomorra».
Prima. Ed ecco gli sciuscià che passano dal rubacchiare caramelle a rapinare con la pistola i vecchi pensionati: «Non ti ha fatto pena, quel vecchio?». «No». E i corrieri delle «bionde» con le ricetrasmittenti e il mangiadischi che sparano a tutto volume «Torna a Surriento» per dire ai complici di rientrare alla base se ci sono in giro troppi carabinieri. E il sindaco pci Maurizio Valenzi che accusa i grandi trafficanti ma scusa quelle «due, tre, quattromila persone che si arrangiano vendendo le sigarette per la strada le quali lo considerano un lavoro, una specie di piccolo commercio». E il ragazzino che gira col coltello: «Voglio uccidere mio padre». E «Delitto a Posillipo» che racconta della giovanissima Pupetta Maresca che vendicò il marito «Pascalone ‘e Nola» sparando a «Totonno ‘e Pomigliano». E il patto infame tra camorra e Br col sequestro di Ciro Cirillo e le trattative nel carcere di Ascoli condotte coi camorristi Vincenzo Casillo e Corrado Iacolare che «forse erano latitanti».
E su tutti «Don Raffae’», che «entra in scena con un obiettivo ambizioso: strappare la camorra dal controllo della mafia siciliana e fare della Nuova camorra organizzata un unico comando militare ed economico» e costruisce un impero parallelo dominato ’ncoppa a Ottaviano da un castello longobardo con 365 camere e un ampio parco, piscina, campo da tennis «abitato fino a qualche hanno fa dagli eredi dei Medici» dove «i neofiti si sottopongono alla cerimonia del giuramento». Camorrista lui, Raffaele? «Quando mai!», risponde Rosetta Cutolo in una strepitosa intervista al mitico inviato Rai Giuseppe «Joe» Marrazzo: «Mio fratello è abituato a fare sempre delle cose belle e tutt’ora fa cose belle». Se uno deve chiedere un piacere... «chiede a mio fratello e mio fratello, giustamente, si rivolge a chi insomma gli fa il piacere. È andata una signora che le serviva il posto per il marito e mio fratello ha scritto alla persona incaricata e gli ha fatto avere il posto». Chissà chi era... Magari una parente del «brigadiero» Pasquale Cafiero, che nella canzone di Massimo Bubola e Fabrizio De André implora don Raffae’: «Voi vi basta una mossa, una voce / C’ha ‘sto Cristo ci levano ‘a croce»...
Cambio scena. «In quanti abitate in questa stanza?», chiede un cronista a una donna dei bassi napoletani. «Eeeeh! Dodici persone». «Dodici persone solo in questa stanza? E dove mettete i letti?» «Qua, là...». Eccone un’altra. Urla: «Vogliamo la pulizia! Vogliamo la casa! Dentro queste chiaviche non vogliamo più stare! Basta! Siamo pieni di topi!». Alla larga da prediche e sociologismi. Ma è lì, nelle sentine di una città abbandonata all’abbruttimento che ha avuto tante sommosse «ma mai una rivoluzione», che Cutolo tirava su la «paranza». «Se io ho dei soldi, li mando all’umanità sofferente», spiega il boss in giacca, cravatta e schiavettoni ai polsi in quella raggelante intervista a Joe Marrazzo: «Non li mando come dicono solo ai carcerati. Potete vedere nelle carceri. Io faccio tutti i giorni dei vaglia a bambini, bambine... Forse perché ho bisogno d’affetto, non so». Vaglia. A tutti...
Macché boss! «Lo dicono gli altri. Sono un uomo che a modo mio si è messo contro la società». Insomma, «uno che combatte contro le ingiustizie». «Un Robin Hood, diciamo?». «Diciamo...». «E i 200 morti in un anno e mezzo?». «Il terremoto, il terremoto...». «No, i morti ammazzati». «Qualcuno c’ha l’abbonamento con le pompe funebri… Fa i morti, no?». Comunque, ovvio, «la vita umana è una cosa sacra»...
Sono passati tanti anni, da allora. E chi ama Napoli con tutta la disperazione che merita una città meravigliosa e tragica non può schiodarsi dalla testa la canzone di Meg, dei «99 posse», che scorre sui titoli di coda: «Una corona di spine / è così facile da portare / dopo un po’ non ti fa più male...».