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 2018  agosto 31 Venerdì calendario

Corsivi e commenti

Copia-incolla
Corriere della Sera
Dovendo illustrare ai consiglieri il suo programma per Avellino, il sindaco cinquestelle Vincenzo Ciampi ha trovato più agevole copia-incollare quello del sindaco di Verona. Ma Verona dista 737 chilometri da Avellino e ha tutt’altri problemi, senza contare che lì il sindaco è di centrodestra e i cinquestelle stanno all’opposizione, obietteranno gli amici di Macron e Fiorella Mannoia. Ridicoli. Come se, con tutto quel che c’è da twittare al giorno d’oggi, un politico avesse tempo da perdere per pensare. Vorrei rassicurare i pedanti che, se il sindaco di Verona avesse annunciato la concessione del balcone di Giulietta ai Benetton o promesso il pandoro di cittadinanza agli inappetenti e una flat tax sull’Amarone, certamente nel suo omologo avellinese sarebbe sorto qualche scrupolo copiativo. (Per quanto una volta Berlusconi riuscì ad arringare i torinesi sull’annosa questione del porto, prima di accorgersi che era il testo del comizio di Genova).
Invece il discorso veronese si prestava all’emulazione fin dal formidabile incipit: «La situazione è particolarmente delicata e necessita di una seria riflessione». Una frase che può stare egregiamente sulla bocca di un veneto come di un irpino, di un dirigente d’azienda come di un marito cornuto. E solo uno zotico non vorrebbe per la sua città «un cambio di passo» che la trasformi in «crocevia di cultura e sviluppo». In attesa del partito unico, si proceda con il discorso unico. Se uno vale uno, tanto vale copiare l’uno che c’è già.
Massimo Gramellini


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Stagisti 
la Repubblica
A chi pensa che le differenze tra destra e sinistra siano oramai quisquilie, una questione di lana caprina, va chiesto di dare almeno un’occhiata alle due foto di gruppo degli stagisti alla Casa Bianca sotto Trump e sotto Obama. Sono due mondi. Due epoche. Due Americhe. Quasi solo bianchi, e poche donne (bionde) con Trump. Molte più donne, e soprattutto molto più melting pot (rimescolo di etnie e popoli), con Obama. Senza perdere troppo tempo in lungaggini ideologiche o sociologiche, c’è una domanda molto semplice da farsi: quale delle due fotografie è più rappresentativa di quel Paese? La risposta è facile.
Gli stagisti di Obama sono, statisticamente parlando, molto più simili a ciò che è la realtà americana: una società composta, fatta di migranti stratificati nei secoli. Quelli di Trump incarnano la supremazia sociale e politica dei bianchi, e al di là delle intenzioni sono una oggettiva prova di esclusione e di spirito minoritario.
Ecco un evidente argomento che può aiutare la sinistra, in cerca ansiosa di ridefinizione, a darsi orgoglio e identità: può dire con buon diritto che essere più inclusivi significa essere più rappresentativi.
Di una patria, di una nazione, di una società, di una comunità. C’era più America nell’America di Obama che nell’America di Trump. C’era più società. C’era più realtà.
Michele Serra



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Nerone
La Stampa
Oltre tredici anni fa, appena arrivato a Roma, andai a visitare San Giuseppe dei Falegnami, la chiesa crollata ieri proprio sotto il Campidoglio. Non mi attirava la chiesa, ma i sotterranei, dove resta qualcosa del Carcere Mamertino nel quale, secondo una solida tradizione, fu recluso San Pietro. Roma era appena stata devastata dal grande incendio del 64 d.C. Anni dopo e senza tante prove, come succede quando la gente infuria sulla casta, la colpa sarà data a Nerone, che braccato si toglierà la vita. E siccome cominciò a girare subito la voce che fosse stato lui a dare fuoco alla città per costruirsi l’immensa Domus Aurea, Nerone decise di scaricare tutto sui più deboli: i cristiani. Questo popolo di straccioni che veniva dal sud a predicare una religione di fanatici, a sovvertire l’ordine pubblico, a minacciare i buoni costumi, e pure a ciondolare senza costrutto per l’Urbe. Inoltre i romani erano un po’ nervosetti. Non soltanto la città era rimasta fra le fiamme per nove giorni, ed era andata mezza distrutta, ma poi c’erano le solite cose: le tasse alte, la criminalità che si muoveva specialmente nel buio della notte, la corruzione. Così, insomma, fu facile puntare il dito sui nuovi venuti, stranieri senza arte né parte, arrivati qui a radere al suolo una civiltà. Pietro finì in ceppi al Mamertino e dopo un po’ venne crocefisso, e poi il supplizio toccò a una moltitudine dei suoi. Quel giorno, guardando la cella di Pietro, pensai malinconico proprio a Nerone, che s’era inventato un nemico perfetto da consegnare alla rabbia del popolo. Ma che a quella stessa rabbia non sarebbe scampato. 
Mattia Feltri


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Foulard
il Giornale
Senza una ragione apparente, alcune cose della nostra vita quotidiana passano di moda. Si fermano in un altro tempo. E, mentre noi restiamo fermi al momento interiore in cui esse sembravano assolutamente normali, i giovani di oggi non ne hanno nozione, ti guardano stupiti. In tre generi diversi, penso: al frappè, che nel 90% dei bar non sono in grado di preparare (eppure basta un frullatore), mentre tutti conoscono e bevono, tecnicamente più macchinosi, il mojito o la caipirinha con una ossessiva voluttà. Penso: al foulard che, meglio della cravatta, ordinaria, borghese, e ora in precipitoso declino, connotava un atteggiamento un po’ dandy, snob, con l’aria assente di un novello Gastone. Il foulard era sinonimo di eleganza affettata, voluta. Sparito. Ne ho ritrovato traccia, nonchalante, al collo di un amico padovano, Lucio Gottardo, che sta a Cape Town dal 1974, quando in Italia del foulard cominciavano a perdersi le tracce.
Penso poi a uno strumento, che ha perso funzione ed esistenza: il deflettore, meraviglioso congegno che consentiva di aprire una porzione triangolare del finestrino, come un timone la corrente, prima che, in tutte le automobili, chiuse come gusci, fosse introdotta l’aria condizionata. Del declino del deflettore, dominante negli anni 60 e 70, e meraviglioso nelle macchine spider per consentirti di calare il vetro, proiettando il gomito all’esterno, senza essere investiti dal vento, si è accorto anche Francesco Guccini. Che un dettaglio come questo ci unisca indica il passaggio del tempo.
Vittorio Sgarbi



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Piano
Libero
Piano è considerato coram populo un grande architetto e noi non vogliamo contestare la vulgata. Però ci ha stupito che egli abbia ficcato il naso sul ponte crollato a Genova, proponendone uno nuovo che ha suscitato l’entusiasmo generale. Non si capisce perché il suo disegnino sia stato accolto quale brillante soluzione. L’autore deve la propria fama non solo alle opere che ha firmato, ma anche al fatto di essere sempre stato un criptocomunista, caratteristica che rende simpatici e apprezzabili nell’ambiente esiguo dei fighetti. Tuttavia questo importa poco o niente.
Il problema è che Renzo Piano non è un ingegnere abilitato a progettare ponti, non è compito suo innalzare costruzioni azzardate. Sarebbe meglio si limitasse a curarne l’estetica. Il mio antico concittadino Quarenghi, che svolgeva il suo stesso mestiere di architetto secoli orsono, abbellì Pietroburgo erigendo palazzi mirabili che ancora oggi costituiscono la bellezza principesca della città russa. Non si impegnò mai nella costruzione di viadotti e roba simile. Il che non gli ha impedito di passare alla storia quale autentico genio. Per quale motivo, se non per vanità, l’illustre senatore a vita si è cimentato nell’ardua impresa’ Certi manufatti sono specialità ingegneristiche, richiedono una abilità tecnica che Piano non può avere, non avendo completato studi idonei. Egli infatti, forse consapevole dei propri limiti professionali, ha immaginato di dedicare alle vittime della sciagura elementi commemorativi di esse: delle vele, dei pennoni, delle schifezze assurde che dovrebbero svettare sul sovrappasso onde rendere omaggio ai poveracci crepati sotto le macerie. Sembra che Genova abbisogni di un ponte e non di ornamenti privi di senso pratico. La sicurezza viene prima della gigioneria. Non contano i virtuosismi estetici: occorre badare alla solidità delle strade che sorvolano l’abitato. Non abbiamo antipatia per l’archistar progressista e il presente articolo non è denigratorio, mette soltanto in luce un particolare: non si sfruttano i morti per darsi delle arie.
All’inizio degli anni Novanta assunsi il figlio di Piano in un mio quotidiano, L’Indipendente, segnalatomi da una amica, Fiorella Minervino. Era bravo e me lo portai successivamente al Giornale, dove rimase a lungo, per poi occuparsi delle faccende di papà. È la dimostrazione che non ce l’abbiamo col divo del mattone né coi suoi familiari. Indubbiamente, la gratitudine si conferma essere il sentimento della vigilia. Ci fa ridere che Renzo si candidi a porre il suo nome fin troppo celebrato su un cavalcavia del cavolo. Egli di gloria ne ha fin troppa, si ritiri e non faccia pacchianate.
Vittorio Feltri


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Viganò
Corriere della Sera
Caro Aldo,
di fronte alle gravissime e circostanziate accuse di monsignor Viganò, dovere di ogni giornalista dovrebbe essere la ricerca della verità, chiedendo al destinatario delle accuse una risposta chiara e inequivocabile. La gravità e la vastità degli abusi reiterati del cardinale McCarrick e dai suoi compari, e le complicità e le protezioni di cui la congrega ha beneficiato, gridano giustizia. Se la sente di andare fino in fondo, chiedendo conto del suo operato anche al Papa? Troppo grandi sono il male commesso e la sofferenza arrecata, per chiudere gli occhi e passare oltre. 
Adelmo Cantisani


Caro Adelmo,
il documento dell’arcivescovo Viganò, scritto con Marco Tosatti, è senz’altro uno scoop, visto che ne parla tutto il mondo. Mi sembra evidente però che la richiesta di dimissioni sia una forzatura polemica. I fatti sono di gran lunga antecedenti al papato di Francesco. McCarrick è stato fatto cardinale da Wojtyla, coperto da Bertone, segretario di Stato di Ratzinger – almeno stando all’accusa di Viganò –, ed è stato costretto alle dimissioni da Bergoglio.
Viganò lascia intendere che Francesco non sia intervenuto subito contro McCarrick, o non abbia approfondito le gravi accuse incombenti su di lui, perché l’arcivescovo sarebbe l’ispiratore dell’ala della Chiesa americana che ha appoggiato Bergoglio in Conclave. Ma al Conclave del 2013 che elesse Bergoglio, McCarrick non c’era, visto che aveva compiuto ottant’anni nel 2010. Va riconosciuto che il testo di Viganò ha riaperto o evidenziato una spaccatura nella Chiesa nordamericana, tra conservatori e sostenitori di Francesco. Ed è possibile che tra i critici, non solo negli Stati Uniti, ci siano cardinali che avevano sostenuto Bergoglio, ma non si attendevano da lui una svolta così radicale. Non dimentichiamo che Francesco fu eletto in giorni drammatici per la Santa Sede. La sua popolarità ha ridato slancio per qualche anno all’istituzione. Ma non ha guarito i suoi mali, né forse poteva farlo.
Aldo Cazzullo


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Parole
ItaliaOggi
Lenin diceva che le rivoluzioni si affermano, non con i fucili, ma con le parole. È infatti più utile manovrare le parole che non le pallottole. Questa strategia non è solo leninista ma viene utilizzata in un sacco di ambienti anche oggi. Ad esempio, basta sostituire la parola «campo di concentramento» con quella di «hotspot» che la struttura, pur rimanendo un campo di concentramento (per immigrati, in questo caso), assume subito un aspetto molto più simpatico, gradevole e quindi anche più sostenibile. D’altra parte, sentire che la Merkel vuole finanziare uno o più campi di concentramento in Sicilia (i precedenti governi di sinistra le avevano detto: «Se po’ fa») sarebbe stato almeno imbarazzante per una leader tedesca, se non altro per i precedenti. Invece con gli hotspot sarebbe stato tutto più facile. Fino a che è arrivato Salvini che ha mandato a quel paese la Merkel e i suoi 6 mila euro a testa. Li investa per lo stesso scopo in Baviera, se le riesce.