Perché ha sentito il bisogno di raccontare una storia così intima, senza più ricorrere a filtri letterari?
«L’incontro con Lucas mi ha sconvolto ma non avrei mai pensato di rivelargli la storia con suo padre. Thomas esiste in filigrana in molti miei romanzi, è un nome che ho utilizzato più volte, ma lui mi aveva fatto promettere che la nostra storia sarebbe rimasta segreta. Sapeva, ancora più di me visto le sue origini sociali, che essere omosessuale a Barbezieux significava prendere colpi, subire insulti, finire ai margini. All’epoca ne ho sofferto, ovvio, ma ho cercato di trasformare la nostra clandestinità in forza, pensando che quei momenti appartenevano così soltanto a noi».
Alla fine ha deciso che era giunto il momento di infrangere quella promessa.
«Dopo aver saputo della morte di Thomas, nel 2016, ho sentito il dovere di testimoniare. Lucas in qualche modo mi ha dato l’autorizzazione. Ho cominciato a scrivere con un senso di urgenza. Il libro è nato da solo, quasi in preda a una febbre. Mi sono reso conto che dietro c’era un tema che ho affrontato in molti altri miei libri: dare la parola ai dispersi».
"Non mentirmi" è la raccomandazione che le faceva sua madre quando era piccolo. È stato di parola?
«Ho obbedito ma con un po’ di ritardo, come ha osservato lei. Mia madre è ancora viva ed è abituata a leggermi. La sua raccomandazione era dovuta al fatto che da bambino avevo una straordinaria capacità di inventare storie. In questo caso è tutto vero, non ho dovuto viaggiare con la fantasia ma andare a pescare nel profondo dei miei ricordi. La frase del titolo è diretta più verso Thomas che è in qualche modo stato ucciso dalla menzogna, dall’autocensura. È un rischio che corriamo tutti. C’è sempre un momento della nostra vita in cui rischiamo di tradire chi siamo».
Lei non ha mai dovuto nascondersi.
«Sono stato un giovane omosessuale a Parigi negli anni Ottanta. C’era una forma di liberazione dei costumi. Era un’epoca felice anche se la nostra generazione è stata decimata dall’Aids. Molti miei amici sono morti. A cinquant’anni mi sento quasi un superstite».
Essere un giovane omosessuale in una città di provincia oggi è diverso?
«La situazione è migliorata anche se restano sacche di omofobia nella società e qualche anno fa milioni di francesi hanno sfilato contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Dopo la pubblicazione del libro ho ricevuto molte lettere, nessun altro mio libro ha provocato così tanta corrispondenza. Mi hanno scritto uomini di mezz’età che non hanno mai confessato la loro omosessualità ma anche giovani costretti a nascondersi».
Perché non ha mai cercato di
rivedere Thomas?
«Quando ho avuto sue notizie tramite il figlio ero in coppia con qualcuno, erano passati più di vent’anni. Thomas apparteneva al passato, anche se la storia con lui mi ha costruito, è parte della mia identità. Sono contrario all’idea di andare a cercare gli amori di gioventù. Penso sia sempre da evitare. Anche Thomas era dentro alla sua vita, e neppure lui ha fatto nulla per incontrarmi. In fondo siamo stati entrambi ragazzi obbedienti».
Obbedienti a chi?
«A un certo determinismo sociale.
Io inseguendo le ambizioni e i sogni dei miei genitori che mi proiettavano verso brillanti studi.
Thomas restando a fare il contadino come tutta la sua famiglia. Nel suo caso la trappola si è richiusa molto in fretta: è diventato padre giovane quasi per caso, è stato costretto a sposarsi, non ha mai potuto davvero fare un esame di autocoscienza su ciò che desiderava. Quando ha voluto farlo, era troppo tardi».
Ha rimpianti, pensa che avrebbe potuto salvarlo?
«Sono convinto che non si possa salvare chi non vuole essere salvato. Penso che, anche se ci fossimo rivisti, non avrei potuto fare nulla per Thomas».