la Repubblica, 30 agosto 2018
A dieci anni dalla morte di David Foster Wallace esce “Il ramo spezzato” di Karen Green, la moglie dello scrittore che racconta l’elaborazione del lutto
«Mi fai ciao mestamente da ogni finestra». Lo spazio del lutto è identico allo spazio prima del lutto – la casa, le tende svolazzanti, il giardino, i cani – e però non è lo stesso, non lo sarà più. Anche i mesi, le stagioni che tornano sono quasi identiche, e però non saranno le stesse. «Casa nostra puzza di piscio di cane. Il pavimento di sughero ha una fantasia screziata tipo filtro di sigaretta, il linoleum è una griglia di cracker. Il cielo che tossisce, le pillole nuove, due paia di occhi dorati che seguono i nostri movimenti. Come sta ingiallendo questo posto».
Nelle pagine di Il ramo spezzato (Baldini+Castoldi, edizione limitata e numerata), l’artista californiana Karen Green insiste sui luoghi – come dovesse riprenderne le misure, o perimetrare un’assenza – e sugli oggetti. Gli spettatori muti della nostra vita (la moquette, una tuta, il forno, le travi del soffitto) restano lì anche quando ce ne andiamo. E lei, che ha perso l’uomo che amava, suo marito, asseconda quella «pulsione disperata» che prende a battere nei vivi, e che li stimola – sono parole di Elsa Morante – «a cercare i loro morti non solo nel tempo, ma nello spazio». Così, trova il suo tema dell’addio nell’inventario di cose, prima ancora che di gesti o di parole; confeziona una lista poetica e strana, pronta per un trasloco impossibile.
Ho provato a leggere Il ramo spezzato sforzandomi per un po’ di dimenticare l’identità del grande assente: lo scrittore americano David Foster Wallace, morto suicida il 12 settembre 2008. Green avanza per lampi, per strappi: ogni passo di prosa lirica è circondato, avvolto o forse protetto, da parecchio spazio bianco. E cadono, come punteggiatura visiva, alcune sue opere artistiche – collage, minuscoli assemblaggi – la cui didascalia, un’ekphrasis opaca e straniata, pare nascondersi nelle pieghe del testo. A differenza di ciò che accade in alcuni fra i racconti più forti di vedovanza pubblicati nell’ultimo decennio ( L’anno del pensiero magico di Joan Didion, Storia di una vedova di Joyce Carol Oates, Livelli di vita di Julian Barnes), Green non intende ricostruire, o connettere, né fare ordine nella memoria. È troppo presto, o forse, in ogni caso, è tardi. «Tutto è sparpagliato».
La sensazione più marcata che Il ramo spezzato riesce a tradurre in parole (in italiano, grazie alla bellissima versione di Martina Testa) è il disorientamento dopo una perdita, quella sospensione insieme calma e disperata, la difficoltà di mettere a fuoco: le lacrime velano e sfumano i contorni, ma anche a occhi asciutti niente appare chiaro, decifrabile fino in fondo. «Piume che cadono dal cielo come talco, pentole di ferro battuto che fumano poesie sul soffitto della cucina», «un uccello in smoking che saltella fra le olive cadute». È il referto di un prendere coscienza: desultorio, sghembo, sovraccarico di immagini, visioni irreali, da lungo dormiveglia – «sento le voci, e vedo le voci»; gli psicofarmaci non le disperdono, talvolta le estenuano.
Wallace non è mai nominato, mai direttamente, né si allude al suo lavoro di scrittore. Alla scelta di andarsene a quel modo, impiccandosi, sì; e alle sue pillole blu, ai calzettoni da tennis, a certe fumate «da paziente psichiatrico», al sacchetto dell’aspirapolvere svuotato sopra le rose, a un rituale compiuto ogni giorno, rassicurante, «strofinarci le pance una contro l’altra». «È dura ricordare le cose tenere con tenerezza» scrive Karen Green, e poi però dà l’impressione che il punto non sia quello, ricordare, ma accettare, in qualche modo resistere. Spiegare al cane, quello marrone che non vuole più dormire con lei, ciò che è accaduto: «Gli sollevo l’orecchio di velluto e gli dico: Guarda che non torna». Sentire gli altri che parlano di lui come se fosse normale che sia morto («e questo mi fa incazzare»). Avere ancora voglia di raccontargli delle storie, «il che va benissimo, il che andava benissimo, ma adesso il sole è un demonio e io devo chiamare aiuto».
Rinunciare all’idea di poter ancora andare a cena insieme: «Non c’è bisogno di ripetermelo mille volte. Hai vinto tu tutte le discussioni, tranne quella sul fatto che sarei stata meglio». Sentirsi dire da un medico che se lui – l’assente – fosse stato davvero tanto perfetto come marito, allora sarebbe ancora qui, «non per offenderla eh».
Ricevere un’email in cui un tizio sconosciuto le dice: «Nessuno la conosceva prima che suo marito si togliesse la vita». Mi sa che forse è vero, conclude lei. Tenere per mano la madre di lui, «ed eravamo un groviglio di vene». Sopportare che gli altri ti dicano come devi sentirti. Ma lei resta in pigiama, strascica i passi, inghiotte qualcuna delle vecchie pillole lasciate da lui.
Nell’ora che basta per leggere Il ramo spezzato, arrivano ondate tali di tristezza da restare in apnea. E quando Karen chiama il dottore per dirgli «sto soffrendo, è imbarazzante, e ho bisogno bisogno bisogno», fa appunto esplodere quell’imbarazzo – lo stesso colto da chi, a voce alta, durante la cerimonia funebre, aveva detto: «Quelli che ora mi preoccupano sono i vivi». Come si può far quadrare l’ingiustizia della sorte altrui con quella che, una volta abbandonati, sentiamo riguardare noi? Come si può leggere il dolore di chi non c’è più nel nostro?
Il lutto alla fine diventa immortale, scrive Karen Green, e forse proprio per questo lei continua a parlare con suo marito: «Ma certo che te ne dovevi andare», gli dice, mentre è sotto anestetico e la dentista armeggia con una capsula dentale. Forse ha cominciato così a prendere coscienza del vuoto – la condizione, ormai quasi familiare e comunque irreversibile, del suo «essere cava». La realtà, aveva scritto Wallace, «è che morire non è brutto, ma dura per sempre».