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 2018  agosto 29 Mercoledì calendario

Il ritiro di Ginobili, l’altro Maradona che sfidava la fisica

L’argentino che scelse da ragazzo il pallone sbagliato e fino all’altro ieri, a quarantun anni, ha continuato a sbatterlo su un pavimento di legno, ha deciso adesso che questa storia è finita.Non rivedremo più il basket indelebile di Manu Ginobili, da Bahia Blanca: schiacciate e slalom, triple e canestri in ricaduta, e soprattutto quei passaggi che, già balenati dentro di lui con un secondo d’anticipo, facevano poi scattare in piedi, al compiersi di traiettorie ai confini della fisica, intere arene per applausi tra l’ammirato e lo sbigottito.
Ginobili lascia dopo sedici stagioni Nba, singolarmente tutte, nella lega dei contratti che lievitano cambiando maglia, vestendone una sola, quella dei San Antonio Spurs. Ha vinto quattro titoli, giocato 1.275 partite, segnato più di 14.000 punti. Ma nel Texas fittamente popolato di fratelli latinos è stato amato, oltre i sontuosi e freddi numeri, come tipico giocatore di cuore. Quelli che osano. E che spesso riescono.
Giocandosi ancora la faccia con esiti felici, l’uscita di scena ha perfino sorpreso, non solo per il residuo anno di contratto lasciato cadere, ma soprattutto dopo playoff giocati ancora da protagonista, nell’impari sfida ai Warriors. Si diceva: Manu ha gambe e testa per tirare avanti. E invece no. Game over.
Eroe di molti mondi, venire da un paese di canestri non primari ne dilata il mito. Mai primattrice, la nazionale argentina apre il terzo millennio innervando con lui e una rara generazione dorata un ciclo da epopea. Ginobili gioca rotto frammenti della finale con la Jugoslavia ai Mondiali 2002, e deve saziarsi del solo argento.
L’oro verrà alle Olimpiadi di Atene 2004, abbagliante come le sequenze che ne scandiscono la conquista. Canestro alla sirena, volando per le terre, nella vittoria inaugurale sui serbi. Batosta inflitta al Dream Team Usa in semifinale (firmando in proprio 29 punti).
E, in finale, l’ultima grande Italia domata senza sconti. Sfilando infine a Pechino 2008 come portabandiera, tutto questo vale ad issarlo in patria al rango d’un Maradona: perché i migliori restano quelli che, mostrando i loro incanti, vincono pure il primo premio. Manu lo fa solo con un pallone meno popolare, quello del baloncesto. E con quell’aria educata e riservata, da ragazzo della porta accanto, che poco confina coi tanti mezzi matti del futbol.
L’Argentina li esporta da sempre per il mondo, promesse e campioni d’ogni palla che rotola, e la filiera che porta Ginobili via da casa sbarca a Reggio Calabria. C’erano già arrivati Sconochini e Montecchia, tra i più noti, e nell’anno 1998, lui 21 da fare, ci arriva Manu, per giocarci due stagioni. Poi Bologna, il primo grande palcoscenico. Non è un mistero che Ettore Messina avesse scelto Andrea Meneghin, come pietra angolare su cui rifondare la Virtus. Ma in quella che era allora la vera Basket City, Meneghin preferì l’altra riva, la Fortitudo. Già opzionato e lasciato scadere, il ripiego Ginobili fu “ricomprato” dalla V, tirandolo giù, letteralmente, dal volo per Atene e l’Olympiacos.
Le sliding doors dischiudono carriere. O forse, talvolta, non esistono: chi deve arrivare, la sua strada la troverà. Ma se per salire su un trono serve chi vi abdichi e lo lasci vacante, a casa Virtus quell’estate del 2000 gira proprio così. Al divino Danilovic, già canonizzato nel pantheon bianconero dal tiro da 4 di un impagabile scudetto, basta il primo allenamento per capire che un nuovo sire regnerà anche sulle sue logore giunture, ai soli trent’anni di una carriera parimenti gonfia di gioie e dolori. «Ettore, smetto. Non ce la faccio più». Una telefonata, la sera stessa, nell’era prima dei tweet. A Messina basta invece la prima partita per spaventarsi a vuoto. Atene, Eurolega: Aek batte Kinder, Ginobili segna un punto. Ascoltano lo sconfortato tecnico solo i muri di Oaka, l’arena che pure ha in serbo, per Manu, il futuro oro olimpico. «Se questo è il nostro miglior giocatore, non andiamo da nessuna parte». Andarono, invece, dappertutto. Qui nacque il fenomeno, razziatore del Grande Slam, l’ultimo visto a Bologna: scudetto, Eurolega, Coppa Italia. E fino all’altro ieri, nella ritrovata casa famiglia di San Antonio, i due sono andati, 18 anni dopo: il sesto uomo che, ormai tutto naso e pelata, uscendo dalla panchina ribaltava ancora le partite, e il vice coach che racconta d’aver delibato con pari gusto gli ultimi preziosi anni d’invecchiamento, dopo quei primi impetuosi, «quando ad ogni allenamento Manu superava l’ostacolo che il giorno prima l’aveva respinto».
«Triste ma sereno», dice d’averlo visto, ora che si apre il dopo, fuori campo, nel coro ancora stordente, ma destinato a infiochirsi, dei messaggi di saluto che lo riveriscono, firme illustri da Kobe Bryant a LeBron James, da Steph Curry al nostro Marco Belinelli, compagno di giochi all’inizio e alla fine, in Emilia e in Texas. Non pare che il futuro sarà da allenatore, più probabilmente da dirigente del suo club a vita, a fianco del gm Rc Buford.
Suerte, Manu.